Avv. Leandro Grasso
La diffamazione tra cronaca e critica: verità, continenza e strategie processuali
Nel campo della responsabilità civile e penale, la diffamazione rappresenta una delle frontiere più delicate e controverse, soprattutto quando si innesta nel terreno sdrucciolevole della comunicazione pubblica: giornalismo, web, social network. Non è raro che, dietro uno schermo di diritto di cronaca o di critica, si celino vere e proprie aggressioni alla reputazione altrui. E non sempre è agevole per la vittima orientarsi tra i margini incerti della liceità e della responsabilità civile. Cerchiamo di analizzare alcuni esempi di diffamazione e di casi pratici.
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Il caso del giornalismo non verificato: quando la fonte istituzionale non basta
In un primo caso, oggetto di recente scrutinio da parte della Corte di Cassazione, si è discusso della responsabilità di un giornalista che aveva scritto che un soggetto era stato “arrestato per fatti di criminalità organizzata”. La fonte? Un comunicato stampa dell’Autorità Giudiziaria. Non un’indagine personale, non un’inchiesta giornalistica: solo un rilancio, apparentemente fedele, di una fonte ufficiale.
Sembrerebbe, a prima vista, un esercizio lecito del diritto di cronaca. E invece no. La Cassazione è stata netta: non è sufficiente richiamarsi a un comunicato, se non lo si riporta fedelmente o se, peggio, lo si interpreta in modo soggettivo. Il giornalista, infatti, ha l’onere di verificare la notizia, di coglierne l’esatto contenuto e di rispettare rigorosamente il principio della verità oggettiva. La verosimiglianza non basta, soprattutto quando si intacca la presunzione d’innocenza. Questo caso è in realtà molto comune, ciò in quanto molto spesso i giornalisti si sono trasformati in articolisti e rilanciano notizie con velocità e poca perizia a caccia di clickbait.
Cosa deve dimostrare la parte lesa? Solo la diffusione della notizia e la lesione alla reputazione. Non deve provare la falsità: sarà il convenuto, ex adverso, a dover dimostrare la verità, anche solo putativa, della notizia.
Come difendersi? In astratto, invocando il diritto di cronaca giudiziaria. Ma attenzione: la Cassazione richiede che vi sia stretta corrispondenza tra il fatto accaduto e il fatto narrato. Se mancano controlli evidenti, se l’errore è macroscopico, allora l’esimente cade. E con essa anche la protezione della libertà di informazione.
Accordo extragiudiziale? In casi come questo, soprattutto se il tono dell’articolo non è apertamente aggressivo e vi è spazio per riconoscere un fraintendimento, un accordo può essere la via preferibile: una rettifica, un risarcimento contenuto e l’impegno a una maggiore prudenza futura. Un processo, al contrario, potrebbe accentuare il danno d’immagine di entrambe le parti.
La Difficile Tutela dei Contenuti Online
Critica legittima o insulto gratuito? Il crinale della “continenza”
In un secondo episodio, il giornalista aveva denunciato gli esiti di un appalto pubblico con toni sferzanti, definiti da lui stesso “espressione di indignazione civica”: “Questi quattro mariuoli… Ladri! È logico che devi pagare la tangente…”. Il riferimento era a una ditta privata, accostata in modo diretto a politici corrotti e ad ambienti clientelari.
Qui non era in discussione la verità dei fatti (il risparmio economico nel nuovo appalto, le passate gestioni), ma il modo in cui essi erano stati rappresentati. In diritto, parliamo del requisito della continenza, elemento essenziale della scriminante del diritto di critica.
La Suprema Corte ha chiarito che la critica può anche essere pungente, ironica, gergale. Ma deve essere funzionale allo scopo informativo. Non può travalicare nel gratuito attacco personale, soprattutto se manca un preciso ancoraggio a fatti specifici. In questo caso, i toni usati risultavano non solo esorbitanti, ma anche svincolati da riferimenti concreti: tanto più grave se si considera che, al momento della pubblicazione, nessuno dei soggetti nominati risultava condannato per i fatti ipotizzati.
La prova per la parte offesa: non deve dimostrare la falsità del contenuto, ma solo l’offensività delle modalità espressive e la non proporzione con la finalità di critica. Il contenuto può anche essere vero, ma la forma rende l’articolo diffamatorio.
La linea difensiva: qui si tenta spesso di invocare la libertà di espressione e la legittimità del giornalismo d’inchiesta. Ma se mancano riferimenti temporali, fattuali e processuali concreti, e si usano epiteti infamanti (“ladri”) in assenza di sentenze, la difesa vacilla. Ancora una volta, la verosimiglianza non salva.
Convenienza della transazione: in un contesto dove il linguaggio ha già superato i limiti del lecito, l’accordo risulta difficile se non accompagnato da scuse pubbliche. Tuttavia, può rappresentare una soluzione vantaggiosa se si vuole evitare una sentenza pesante sia dal punto di vista economico che reputazionale.
Onere della prova e verità putativa: chi deve dimostrare cosa?
La prova della verità: onere a carico del convenuto, ma non sempre basta
Una delle questioni più controverse, e ancora oggi talvolta fraintese nella prassi forense, riguarda l’onere della prova nel giudizio per diffamazione. Un errore piuttosto diffuso — anche in ambito giudiziario — è pensare che spetti alla parte lesa dimostrare che il fatto narrato è falso. Questa lettura, tuttavia, è stata chiaramente superata dalla giurisprudenza più evoluta, secondo cui il carico probatorio ricade sul convenuto, cioè su colui che ha diffuso la notizia.
La Corte di Cassazione lo ha ribadito con decisioni nette: Cass. civ., sez. III, 26 aprile 2022, n. 12985, e già in precedenza con Cass. civ., sez. III, 8 aprile 2013, n. 9458, stabilendo che:
«Non spetta all’attore dimostrare la falsità del fatto pubblicato, ma è l’autore dell’affermazione a dover provare la verità del fatto, ovvero, almeno, la sua verosimiglianza, in ragione dell’attendibilità della fonte utilizzata».
Questa regola ha profonde implicazioni pratiche.
Verità putativa e attendibilità della fonte
La legge e la giurisprudenza ammettono che non sempre il giornalista o l’autore di una dichiarazione possa accedere alla verità assoluta, specialmente nei casi in cui i fatti riguardino inchieste in corso, dichiarazioni rilasciate da terzi, o documenti ancora coperti da riservatezza. In tali casi, si consente una forma di “verità putativa” — cioè una verità creduta vera in buona fede e sulla base di elementi ragionevoli.
Ma questa verità putativa non è una scappatoia: deve essere fondata su una fonte qualificata, ovvero: Proveniente da un soggetto istituzionale (ad esempio: comunicato della Procura, sentenza, atto pubblico). Inoltre deve essere verificabile, indipendente (non di parte), e, soprattutto, attendibile nel contesto specifico.
Se la fonte è anonima, proveniente da un rivale personale, da un blog non giornalistico, o se il contenuto è basato su “voci”, indiscrezioni o opinioni, l’onere probatorio ricade sull’autore: dovrà dimostrare non solo di avere riportato fedelmente quanto appreso, ma anche di aver fatto il possibile per verificare la fonte e il fatto. E in questi casi, deve anche dimostrare, l’interesse pubblico.
Strategie processuali: il punto di vista del danneggiato
Per il soggetto che si ritiene leso nella sua reputazione, la chiave non è necessariamente dimostrare la falsità del contenuto — compito spesso difficile, se non impossibile, specialmente quando si tratta di fatti sfumati, percezioni o accuse indirette. Piuttosto, è più efficace puntare su elementi che indeboliscano la pretesa buona fede dell’autore.
Alcune strategie utili sono Dimostrare l’assenza di verifica: il convenuto non ha cercato riscontri, non ha interpellato la controparte, non ha consultato documenti accessibili. Evidenziare la parzialità della fonte: ad esempio, se l’informazione proviene da un soggetto in lite con il diffamato o da un ambiente ostile. Sottolineare l’assenza di riscontri oggettivi: nessun documento, nessuna conferma da terzi, nessuna prova materiale. Argomentare sulla forma e sul tono: anche a fronte di contenuti potenzialmente veri, se l’informazione è veicolata con espressioni denigratorie, umilianti o volgari, viene meno il requisito della continenza, rendendo il fatto comunque diffamatorio.
Strategie difensive: il punto di vista dell’autore/diffusore
Dal lato opposto, chi è chiamato a rispondere in giudizio per diffamazione deve dimostrare che la propria condotta si è svolta nel perimetro del diritto di cronaca o critica, e quindi giustificata dalla combinazione dei tre requisiti: verità (o verosimiglianza), continenza, interesse pubblico.
L’autore dovrà in prima istanza Ricostruire con precisione la genesi della notizia, allegando email, appunti, chat, telefonate, bozze. Mostrare cioè che c’è stata un’attività reale di verifica. Documentare la fonte: allegare il testo del comunicato, l’atto giudiziario, la dichiarazione da cui è stata tratta l’informazione. Indicare la convergenza di fonti multiple: se più testate giornalistiche, istituzioni o soggetti qualificati hanno riportato lo stesso fatto, questo rafforza l’attendibilità e riduce l’onere di verifica. Dimostrare la buona fede soggettiva: assenza di animosità personale, motivazione informativa o civile, e disponibilità a rettifica quando richiesto. Contestualizzare il linguaggio: soprattutto nei casi in cui l’articolo è satirico, di commento politico o di critica sociale, è importante mostrare che il tono usato era coerente col genere espressivo e non finalizzato a infangare.
Una conclusione provvisoria
La partita probatoria nella diffamazione non si gioca soltanto sulla verità dei fatti, ma sulla correttezza complessiva del comportamento: ciò che conta è se chi ha parlato o scritto poteva ragionevolmente credere di essere nel giusto, e si è espresso nei modi dovuti, nel rispetto del ruolo informativo che esercitava.
Chi subisce un danno deve dunque saper costruire il proprio caso sul difetto di attendibilità, più che sulla dimostrazione della falsità.
Chi scrive o parla, al contrario, deve assumersi l’onere pieno della trasparenza e del metodo, dimostrando che dietro l’affermazione c’era un lavoro serio, e non un impulso lesivo.
L’Abuso del Diritto e l’Abuso del Processo
La diffamazione è uno degli ambiti dove più evidente è il conflitto tra due diritti costituzionali: da un lato, la reputazione dell’individuo (art. 2 Cost.), dall’altro, la libertà di espressione (art. 21 Cost.). Nessuno dei due ha un primato assoluto. La giurisprudenza, negli anni, ha tracciato un equilibrio che si regge su tre pilastri: verità, continenza, interesse pubblico.
Chi scrive, parla o pubblica ha l’onere di dimostrare di essersi mosso all’interno di questi confini. Chi ritiene di essere stato diffamato, invece, deve agire con prontezza, ma anche con lucidità strategica: non ogni causa si vince in aula, e talvolta un confronto ben condotto può salvare ciò che un processo rischia di distruggere.
C’è un campo che da sempre è in bilico tra i pilastri che abbiamo visto: la satira.
La satira e l’ironia rappresentano forme particolari di espressione tutelate dall’ordinamento, ma con regole proprie e limiti ben definiti.
Satira e ironia: immunità assoluta? No, ma tutela rafforzata. La satira è una modalità di espressione che, per definizione, non mira alla verità fattuale ma alla rappresentazione paradossale e deformata della realtà, con finalità spesso di critica sociale, politica o morale. La giurisprudenza ha riconosciuto che essa gode di una forma di protezione più ampia rispetto alla cronaca o alla critica tradizionale, proprio perché il suo registro è volutamente iperbolico, grottesco, dissacrante.
Cass. pen., Sez. V, n. 3431/2005: «La satira è una forma di manifestazione del pensiero che trova tutela nell’art. 21 Cost., ed è caratterizzata da contenuti volutamente e dichiaratamente esagerati, anche attraverso l’uso di espressioni lesive, paradossali o provocatorie, che tuttavia restano lecite se non trasmodano in un’aggressione gratuita e ingiustificata».
Limite della satira: l’aggressione personale. Il discrimine resta sempre lo stesso: non si può travalicare nel mero insulto personale. Se la satira, pur nella sua esagerazione, mantiene un collegamento con fatti o comportamenti riconoscibili e svolge una funzione critica o sociale, è lecita. Ma se si limita a colpire la dignità della persona con espressioni umilianti, senza alcun aggancio riconoscibile alla realtà, allora decade la tutela.
vignette, articoli e “caricature giornalistiche”
Immaginiamo un articolo satirico che descrive un politico locale come “un incrocio tra Dracula e un venditore di pentole”, accusandolo con ironia di “risucchiare fondi pubblici con la stessa grazia con cui svuota i buffet elettorali”. Se il soggetto è pubblico, noto, e il contesto chiaramente satirico (rubrica, tono, immagini), è difficile che si possa configurare una responsabilità civile. Ma se invece l’articolo accusa un privato cittadino, magari un imprenditore locale, definendolo “parassita mafioso sotto mentite spoglie”, senza elementi oggettivi di supporto, la tutela decade, anche se il linguaggio è ironico.
Strategia processuale: satira sì, ma motivata
Per chi la subisce, la chiave è dimostrare che la rappresentazione non è legata a fatti pubblici o verificabili, è percepita come una vera e propria aggressione e non come critica sociale, inoltre deve dimostrare che manca un contesto chiaramente ironico o satirico.
Per chi la pubblica, la difesa più forte è, ovviamente, dimostrare la notorietà pubblica del soggetto, l’intento critico e sociale dell’intervento, l’evidente natura satirica del mezzo espressivo (es. rubrica di vignette, editoriale satirico, linguaggio visibilmente iperbolico e non realistico).
Verità: il fondamento oggettivo dell’affermazione
Il primo requisito, la verità del fatto narrato, è quello più intuitivo: se si attribuisce a una persona un comportamento lesivo, questo deve essere vero. Ma il concetto giuridico di “verità” è meno assoluto di quanto sembri.
Verità oggettiva vs verità putativa
Nel diritto penale e civile si fa spesso distinzione tra:
- Verità oggettiva, ovvero la corrispondenza piena tra il fatto narrato e ciò che è effettivamente accaduto.
- Verità putativa, che riguarda la buona fede del soggetto che scrive o parla, purché abbia fatto ogni ragionevole sforzo per verificare la notizia e possa dimostrare l’attendibilità delle fonti.
Esempio concreto:
Un giornalista pubblica la notizia che Tizio è stato arrestato per associazione mafiosa, basandosi su un comunicato stampa del Tribunale. Se però omette di precisare che Tizio è solo indagato e non condannato, altera il contenuto informativo e incorre nella diffamazione. Non basta citare la fonte: bisogna verificare, comprendere e riportare correttamente il contenuto.
Onere della prova
In sede civile, spetta al convenuto (giornalista, autore, testata) dimostrare la verità del fatto, anche solo verosimile in base a fonti attendibili. Solo se ciò riesce, potrà giovarsi dell’esimente del diritto di cronaca. In mancanza, la notizia è considerata falsa e quindi potenzialmente diffamatoria.
Continenza: forma e linguaggio, il perimetro della correttezza
La continenza è spesso il requisito più sottovalutato, ma nella giurisprudenza è centrale: non basta dire la verità, bisogna anche saperla dire in modo corretto, sobrio e rispettoso.
Cosa si intende per continenza?
Il termine riguarda le modalità espressive: il lessico usato, il tono, la presenza di insulti, iperboli inutili o espressioni umilianti. Una critica può essere dura, aspra, anche sarcastica — ma deve rimanere entro i limiti della civile convivenza.
Esempio concreto:
Un blogger scrive che un imprenditore locale è “un ladro che ruba alla comunità da anni con la complicità dei politici corrotti”. Anche se la critica nasce da un appalto irregolare, la frase trasforma la denuncia in aggressione personale, violando la continenza. La Corte ha più volte sottolineato che la verità non salva l’insulto: anche una critica fondata può essere illecita se formulata con modalità inutilmente offensive.
Cass. pen., Sez. V, n. 36602/2010: «Il requisito della continenza riguarda le espressioni utilizzate e la forma comunicativa; frasi inutilmente infamanti, offensive o gratuite fanno decadere la scriminante del diritto di critica».
Interesse pubblico: non ogni verità è di tutti
Terzo pilastro, il più “politico” dei tre: l’interesse pubblico all’informazione. Anche una notizia vera e detta con tono civile può diventare diffamatoria se inutile ai fini informativi o priva di rilevanza collettiva.
Cosa significa interesse pubblico?
Significa che la notizia:
- riguarda fatti di rilievo collettivo (pubblica amministrazione, gestione del denaro pubblico, sicurezza, criminalità, politica, ecc.),
- coinvolge figure pubbliche o che ricoprono ruoli di rilievo, oppure
- incide su diritti o libertà fondamentali della comunità.
Esempio concreto:
Una testata locale pubblica un articolo su un litigio privato tra due imprenditori, raccontando dettagli familiari, insulti e rancori personali. Anche se tutto è vero, manca l’interesse pubblico: la notizia è irrilevante per la collettività e dunque diventa lesiva della reputazione.
Invece, se si trattasse di un’indagine per frodi fiscali a danno del Comune, anche toni critici o severi potrebbero essere giustificati dal valore informativo della notizia.
Il Codice Deontologico degli Avvocati