Referendum di giugno 2025
Domenica 8 e lunedì 9 giugno 2025 gli italiani torneranno (in teoria) alle urne per esprimersi su cinque quesiti referendari. Una chiamata collettiva a decidere su temi fondamentali come il lavoro e la cittadinanza. Ma cosa significa davvero votare in un referendum? E perché è importante farlo, oggi più che mai?
Precisazione importante: si può andare a votare anche solo per un quesito.
La Cittadinanza Italiana Ius Sanguinis
Il referendum: strumento di democrazia diretta
In un’epoca in cui la sfiducia nei confronti della politica e delle istituzioni cresce, il referendum rappresenta un momento raro ma potentissimo: è l’unico strumento attraverso cui il cittadino può incidere direttamente sulla produzione normativa dello Stato.
In particolare, il referendum abrogativo, previsto dall’art. 75 della Costituzione italiana, consente di cancellare – in tutto o in parte – una legge o un atto avente forza di legge. Perché sia valido, deve raggiungere il quorum: devono recarsi alle urne almeno la metà più uno degli aventi diritto. Il voto è sì per abrogare la norma, no per mantenerla in vigore.
Si tratta quindi di una decisione binaria che, però, racchiude questioni complesse e profonde. Non votare significa rinunciare a un potere raro: quello di dire direttamente “questa norma deve restare” oppure “questa norma deve sparire”.
Ovviamente il non andare a votare è comunque un’espressione di voto quando si tratta di referendum, però dovrebbe essere un espressione consapevole.
In un momento storico in cui l’astensionismo sembra crescere in parallelo al disincanto civico, i referendum di giugno assumono anche una valenza simbolica: chiamano i cittadini a uscire dall’apatia e a riappropriarsi del proprio ruolo nella democrazia.
I cinque quesiti del Referendum: il lavoro al centro del dibattito
I referendum, indetti con i decreti del Presidente della Repubblica il 25 marzo 2025 (pubblicati nella Gazzetta Ufficiale del 31 marzo):
Contratto a tutele crescenti – Abrogazione della disciplina dei licenziamenti illegittimi introdotta dal Jobs Act
Il primo quesito riguarda una delle riforme più significative del diritto del lavoro degli ultimi decenni: il contratto a tutele crescenti, introdotto dal Jobs Act (D. Lgs. 23/2015), applicato ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015.
Cosa cambia con il Jobs Act?
Ha limitato il reintegro nel posto di lavoro (art. 18 dello Statuto dei Lavoratori) ai soli casi di licenziamento manifestamente infondato o discriminatorio, introducendo in tutti gli altri casi un indennizzo economico crescente con l’anzianità di servizio, anche per i licenziamenti ingiustificati. Questo ha reso più “prevedibile” il costo per le imprese di un licenziamento illegittimo, ma ha anche indebolito la tutela sostanziale dei lavoratori.
Cosa succederebbe con l’abrogazione?
Un sì al referendum eliminerebbe l’intera disciplina del Jobs Act in materia di licenziamenti, con la conseguenza (non automatica ma probabile) del ritorno alla disciplina precedente, basata sull’art. 18 e sulla possibilità di reintegro pieno, ma non solo anche con la possibilità di indennizzi più alti. Tuttavia, tale effetto dipenderebbe da una lettura interpretativa dei giudici o da un nuovo intervento legislativo chiarificatore.
Riflessione critica: si tratta di uno dei quesiti più divisivi. Da un lato, i sostenitori del sì parlano di una “restaurazione di giustizia” e difesa del lavoratore contro l’arbitrio datoriale. Dall’altro, i contrari avvertono che ciò potrebbe scoraggiare le assunzioni, in particolare dei giovani.
Licenziamenti nelle piccole imprese – Abrogazione parziale delle norme speciali
Nel tessuto economico italiano, fatto in larga parte di micro e piccole imprese, oggi chi lavora in aziende con meno di 15 dipendenti non gode delle stesse tutele previste nelle aziende più grandi. In particolare, nei casi di licenziamento illegittimo, è previsto solo un risarcimento (limitato a un massimo di 6 mensilità), non la reintegrazione.
Cosa prevede il quesito?
Il referendum intende abrogare le norme che escludono l’applicazione dell’art. 18 nelle piccole imprese, cercando di estendere anche a questi lavoratori la possibilità della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo.
Le implicazioni
L’obiettivo dichiarato è quello di uniformare le tutele tra lavoratori, superando una discriminazione che molti considerano ingiustificata. Tuttavia, anche qui, si solleva il timore che tale ampliamento possa appesantire i costi per le piccole imprese e disincentivare la creazione di posti di lavoro stabili.
In sintesi: si tratta di una battaglia per l’equità tra lavoratori, ma che impone interrogativi sull’equilibrio tra tutele e sostenibilità economica nel sistema produttivo italiano.
Contratti a termine – Abrogazione parziale delle norme su durata, proroghe e rinnovi
Il terzo quesito si concentra sulla flessibilità contrattuale, uno dei temi più dibattuti nel mercato del lavoro. In particolare, il bersaglio è il Decreto Dignità (D.L. 87/2018), che ha stabilito limiti più rigidi all’uso dei contratti a termine, pur lasciando alcune deroghe e flessibilità in casi specifici.
Cosa prevede il quesito?
Si chiede l’abrogazione di norme che consentono il rinnovo e la proroga dei contratti a termine fino a 24 mesi anche in assenza di “causali” specifiche (cioè motivazioni oggettive). Il sì porterebbe a una riduzione di tale flessibilità, reintroducendo vincoli più stringenti.
Effetti attesi
In caso di vittoria del sì, i contratti a termine sarebbero più difficili da stipulare o rinnovare, e ciò potrebbe spingere (dovrebbe) verso assunzioni più stabili (a tempo indeterminato) o, al contrario, ridurre le opportunità di ingresso nel mercato del lavoro, soprattutto per i giovani e per i settori stagionali.
Questione centrale: flessibilità contro precarietà. Il referendum mira a invertire una tendenza che ha reso l’occupazione spesso instabile e frammentata, ma il rischio è quello di ridurre la “porta d’ingresso” al mondo del lavoro per molte categorie.
Responsabilità solidale negli appalti – Abrogazione dell’esclusione per gli infortuni
Il mondo degli appalti è una galassia dove i rapporti tra committenti, appaltatori e subappaltatori (dove si verificano più incidenti e morti) sono spesso opachi e complessi. La normativa attuale prevede che in caso di infortunio sul lavoro, il committente non sia responsabile se l’incidente dipende da un rischio proprio dell’attività dell’appaltatore.
Il quesito mira ad abrogare questa esclusione, ripristinando la responsabilità solidale: ciò significherebbe che anche il committente potrebbe essere ritenuto responsabile e quindi obbligato al risarcimento, insieme agli altri soggetti della filiera.
Quali conseguenze?
- Maggiore protezione per i lavoratori coinvolti in appalti, che avrebbero più garanzie risarcitorie in caso di incidenti.
- Incentivo alla vigilanza: il committente, potenzialmente responsabile, avrebbe più interesse a controllare che l’appalto venga svolto in condizioni di sicurezza.
- Tuttavia, potrebbe anche portare a un aumento dei costi per le imprese, che si troverebbero a dover gestire maggiori responsabilità legali e assicurative (ma almeno avrebbero TUTTI più attenzioni per i lavoratori).
La posta in gioco: tutelare la vita e la sicurezza nei luoghi di lavoro, spesso messi in secondo piano nei meccanismi di subappalto e competizione al ribasso.
Cittadinanza italiana – Riduzione da 10 a 5 anni del requisito di residenza per stranieri extracomunitari
Questo è il quesito più “civile” tra i cinque, e riguarda un tema identitario e sensibile: la cittadinanza.
Cosa prevede la legge oggi?
Per uno straniero extracomunitario, la legge italiana (L. 91/1992) richiede 10 anni di residenza legale continuativa per poter richiedere la cittadinanza. Il referendum propone di dimezzare questo periodo a 5 anni.
Perché questo cambiamento?
Secondo i promotori, dieci anni rappresentano un’attesa eccessiva, incompatibile con una società moderna e inclusiva. Si sostiene che chi risiede stabilmente, lavora, paga le tasse e manda i figli a scuola, debba poter diventare cittadino a pieno titolo in tempi più rapidi.
Cosa comporterebbe?
- Riconoscimento più rapido dei diritti civili e politici per centinaia di migliaia di persone.
- Potenziale effetto positivo sull’integrazione, sulla partecipazione democratica e sulla coesione sociale (in teoria).
- Dall’altro lato, i critici temono un approccio troppo “permissivo”, che non considererebbe appieno il percorso di assimilazione culturale né di reale appartenenza alla nazione sminuendo la cittadinanza italiana ad un mero atto amministrativo.
In prospettiva: un referendum che interroga l’Italia su cosa significa “essere italiani” e su quali basi fondare l’inclusione nella comunità nazionale.
Un voto che incide sul presente (e sul futuro)
Ognuno di questi quesiti riflette una visione diversa della società: più tutelante per i lavoratori o più flessibile per le imprese, più inclusiva o più selettiva sul fronte della cittadinanza. E come in ogni referendum abrogativo, non si vota su una nuova legge, ma sull’eliminazione di norme già in vigore. Tuttavia, l’abrogazione può aprire spazi normativi nuovi, costringere il legislatore a intervenire, o riportare in vigore la normativa precedente.
Perché votare?
In fondo, i referendum di giugno sono anche una domanda collettiva: quanto ci importa del diritto al lavoro e della cittadinanza oggi in Italia? La risposta non passa solo attraverso il sì o il no, ma innanzitutto nel gesto di andare a votare. Perché un popolo che non partecipa, presto si ritrova governato da decisioni altrui.
L’abrogazione dell’abuso d’ufficio – sentenza n. 5041/2025