la convivenza ‘prima’ e l’assegno ‘dopo’ nel diritto delle unioni civili.

Di cosa parliamo quando parliamo di tempo?

In diritto, come nella vita, il tempo è più di una semplice linea: è spesso il fattore che determina il diritto stesso. È un tempo che può escludere o includere, che può legittimare o ignorare. E quando si parla di unioni civili e assegni di mantenimento, il tempo può diventare questione di giustizia sostanziale.

Con la sentenza delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, pubblicata il 27 dicembre 2023, si è scritta una pagina significativa nella tutela dei diritti derivanti dallo scioglimento dell’unione civile.

Al centro della questione: può la convivenza antecedente alla formalizzazione di un’unione civile — anche se risalente a un’epoca in cui tale istituto giuridico non esisteva — rilevare nella determinazione dell’assegno di mantenimento post-scioglimento?

La risposta è sì. Ma è il percorso logico, storico e costituzionale della risposta ad affascinare davvero.

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Partiamo da una differenza che spesso sfugge

Unioni civili e convivenze di fatto: due binari paralleli (non sempre convergenti)

La legge n. 76 del 2016 ha segnato una svolta storica nel panorama del diritto di famiglia italiano. Non solo ha introdotto l’unione civile tra persone dello stesso sesso (art. 1, commi 1-35), ma ha anche dato riconoscimento normativo alla convivenza di fatto (art. 1, commi 36-65), sia eterosessuale sia omosessuale. Tuttavia, l’apparente parificazione formale cela profonde differenze sul piano sostanziale.

L’unione civile è un istituto giuridico autonomo e formalizzato, creato come alternativa al matrimonio per le coppie dello stesso sesso. Comporta diritti e doveri simili a quelli matrimoniali (sebbene non identici, come per l’adozione), e richiede una dichiarazione pubblica di fronte all’ufficiale di stato civile. Sciogliere un’unione civile comporta effetti patrimoniali disciplinati per rinvio alla legge sul divorzio (l. 898/1970), con applicazione – tra gli altri – dell’art. 5 sull’assegno.

La convivenza di fatto, invece, è una situazione priva di formalizzazione obbligatoria, che può nascere anche senza alcuna registrazione. È basata su una comunione di vita stabile e affettiva, ma non crea automaticamente obblighi patrimoniali tra i conviventi, salvo quelli contrattualmente assunti con un contratto di convivenza. Le tutele previste sono limitate, soprattutto in caso di crisi del rapporto: il convivente ha diritto solo a un assegno alimentare e, in alcune circostanze, alla prosecuzione del contratto di locazione o all’accesso a benefici previdenziali, ma non gode delle stesse garanzie previste in caso di matrimonio o unione civile.

Proprio per questa ragione, la questione affrontata dalle Sezioni Unite è tanto più delicata: si è trattato di decidere se, nella quantificazione dell’assegno spettante a seguito dello scioglimento di un’unione civile, possa rilevare anche la convivenza di fatto preesistente, ancorché anteriore alla legge stessa. La risposta è stata affermativa, segnando un importante sviluppo interpretativo.

Il contesto: da Oliari alla legge n. 76/2016

Per comprendere la decisione delle Sezioni Unite, bisogna risalire a quella ferita normativa che l’Italia ha cercato di rimarginare con la legge n. 76 del 2016, la famosa “Legge Cirinnà”. La Corte EDU, con la storica sentenza Oliari c. Italia del 21 luglio 2015, aveva infatti condannato lo Stato italiano per violazione dell’art. 8 CEDU: mancava un quadro giuridico adeguato a garantire riconoscimento e tutela alle coppie dello stesso sesso.

Quella sentenza è stata la molla che ha spinto il legislatore ad agire. La legge 76/2016 ha così introdotto un’innovativa — ma ancora perfettibile — disciplina sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso, articolando un assetto che richiama in molte parti la normativa matrimoniale, compresa quella sullo scioglimento del legame e l’assegno post-rottura.

Ed è proprio qui che entra in scena l’articolo 5, comma 6, della legge sul divorzio (n. 898/1970), espressamente richiamato dall’art. 1, comma 25, della legge Cirinnà.

Il nodo interpretativo: solo ciò che è stato formalizzato o anche ciò che è stato vissuto?

Le Sezioni Unite sono state chiamate a risolvere un quesito interpretativo delicato, e anche — si potrebbe dire — esistenziale: nel determinare l’assegno da riconoscere a uno dei partner al termine dell’unione civile, si può tener conto della durata della convivenza “di fatto” che ha preceduto la formalizzazione del legame?

E, ancora più spinoso: può valere ai fini della quantificazione dell’assegno anche il periodo anteriore all’entrata in vigore della legge 76/2016?

Il Collegio ha risposto affermativamente, sancendo che la “durata del rapporto”, ai fini dell’art. 5, comma 6, include anche la convivenza pre-unione, anche se precedente alla legge. Un principio che riconosce valore e dignità non solo al diritto, ma anche ai legami di fatto che lo precedono, superando una visione esclusivamente formalistica delle relazioni.

La ratio: tra funzione perequativa e rispetto della vita concreta

La Corte ha operato un’evoluzione interpretativa coerente con il proprio indirizzo più recente sull’assegno divorzile, culminato nella celebre sentenza n. 18287/2018, che ha ridefinito la funzione dell’assegno da assistenziale a perequativo-compensativa. In questa logica, il contributo economico post-rottura non serve solo a “sostenere” chi è economicamente debole, ma a riequilibrare le diseguaglianze generate da scelte condivise, spesso in nome del benessere familiare.

Se un partner ha rinunciato a una carriera o a un’indipendenza economica per sostenere l’altro — magari nel silenzio giuridico degli anni pre-2016 — ciò deve contare nel bilancio finale. La realtà delle vite vissute precede spesso la realtà dei codici, e la legge, per essere giusta, deve tenerne conto.

La convivenza “prodromica”: un fatto, non una finzione

Il termine scelto dalla Corte è significativo: si parla di convivenza “prodromica”, ovvero di quella fase di vita condivisa che, pur priva di riconoscimento giuridico formale, ha già creato una comunione materiale e spirituale tra i partner. Una dimensione che, pur non sorretta da un contratto o da un registro ufficiale, produce effetti reali, tangibili, spesso irreversibili.

Nella logica perequativa dell’assegno, la durata della convivenza serve allora come indicatore di un progetto di vita comune, un progetto che ha comportato sacrifici, investimenti e, inevitabilmente, aspettative legittime.

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Il principio affermato: una frase, un caposaldo

«In caso di scioglimento dell’unione civile […] si estende anche al periodo di convivenza di fatto che abbia preceduto la formalizzazione dell’unione, ancorché lo stesso si sia svolto in tutto o in parte in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 76 cit.»

Questo è il cuore della decisione. In una sola frase, la Corte rovescia il paradigma secondo cui il diritto nasce solo dalla legge: talvolta, nasce prima, dalla vita, e la legge è chiamata a riconoscerlo a posteriori.

Cosa cambia davvero: dalla teoria alla prassi

Dal punto di vista applicativo, la sentenza produce effetti giuridici tangibili:

  • Estende il concetto di “durata del rapporto” anche a convivenze pre-legge.
  • Rafforza il ruolo dei giudici nell’interpretazione concreta del vissuto delle parti, anche prima della costituzione dell’unione civile.
  • Rende retroattivamente significativa una realtà fino a ieri ignorata da norme scritte.

Ma forse, ancor più importante, riconosce un principio di uguaglianza sostanziale, eliminando la discriminazione tra chi ha potuto “sposarsi” legalmente e chi, pur avendo condiviso tutto, lo ha fatto in un tempo in cui lo Stato guardava altrove.

Un’evoluzione coerente: giurisprudenza, realtà, Costituzione

La sentenza si innesta in un solco che parte dalla Costituzione (artt. 2, 3, 29, 30 e 117), passa per Strasburgo (CEDU), e si consolida in Cassazione. È la conferma che il diritto delle relazioni familiari sta assumendo un volto sempre più costituzionale e meno formale.

Dalla Cassazione n. 9004/2021, che aveva già ridimensionato il ruolo della durata legale del matrimonio, alla n. 32019/2021, che ha riconosciuto la dignità delle nuove famiglie di fatto, si consolida un diritto familiare plurale, flessibile, reale.

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E la critica?

Come ogni svolta giurisprudenziale, non mancano le perplessità. Alcuni leggono il provvedimento come una forzatura dell’art. 5 l. div., la cui applicazione è già complessa. Altri temono l’incertezza che può derivare da valutazioni troppo “caso per caso”.

Ma a ben vedere, è proprio nella casistica che la giustizia familiare trova il suo equilibrio: tra norma e vita, tra forma e sostanza. La certezza del diritto, in questi casi, si costruisce non sulla rigidità, ma sull’equità.

Non c’è retroattività della legge, ma interpretazione estensiva del fatto “durata”

La Corte non dice: “La legge si applica retroattivamente”. Questo sarebbe incostituzionale, violando l’art. 11 delle Preleggi e il principio di legalità e irretroattività.
Dice invece: “Nel valutare la durata dell’unione civile sciolta, si può tener conto anche del periodo di convivenza che l’ha preceduta, come elemento fattuale rilevante ai fini della quantificazione dell’assegno.”

La chiave è questa: la legge 76/2016 richiama l’art. 5, comma 6, l. div. 898/1970, che affida al giudice il potere di “tenere conto della durata del matrimonio (o unione civile)”.
Ma la “durata” non è concetto normativo rigido, bensì un parametro valutativo. Il giudice deve, quindi, ricostruire la vera “storia del legame”, e questa può ben cominciare prima della formalizzazione.

✒️ Non è la legge a essere retroattiva, ma il giudizio a essere retrospettivo.

Il criterio perequativo impone di guardare a tutto il percorso di vita comune

Dal 2018 (Cass. n. 18287/2018), l’assegno divorzile (e, per rinvio, quello post-unione civile) non è più solo assistenziale, ma compensativo-perequativo. Serve a riequilibrare le disparità economiche derivate da scelte condivise durante la vita di coppia.

Ora, tali scelte — come rinunce lavorative, sacrifici familiari, sostegno al partner — possono essere avvenute anche in epoca pre-legge, cioè durante la convivenza di fatto.

🔍 Ignorare quella fase significherebbe fotografare solo una parte del progetto di vita comune, e violare il principio costituzionale di uguaglianza sostanziale.

La Corte, quindi, non applica la legge retroattivamente, ma applica il principio della funzione riequilibratrice anche a eventi pregressi, in coerenza con l’evoluzione giurisprudenziale.

Le convivenze pre-2016 erano comunque riconosciute come “fatti giuridici”

Anche prima della legge Cirinnà, le convivenze more uxorio (tra etero e omosessuali) avevano rilevanza giuridica in diversi ambiti:

  • tutela ex art. 8 CEDU (Corte EDU, Oliari c. Italia, 2015)
  • riconoscimento di danno da perdita del convivente (Cass. 23725/2008)
  • assegni alimentari al convivente (Cass. 11320/2009)
  • continuità del contratto di locazione, tutela previdenziale, ecc.

Quindi, non si tratta di “retrodatare” una legge che prima non c’era, ma di riconoscere valore giuridico a un fatto — la convivenza — già dotato di rilevanza prima della sua piena codificazione.

La Corte, in sostanza, afferma:

“La convivenza che precede l’unione civile è giuridicamente rilevante non perché c’è la legge, ma perché è un fatto idoneo a incidere sul patrimonio e sulle aspettative legittime dei partner.”

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Il ruolo della Costituzione e della CEDU: tutela della vita familiare effettiva

Le Sezioni Unite fanno riferimento anche ai valori costituzionali (artt. 2, 3, 29, 117 Cost.) e alla giurisprudenza della Corte EDU:

  • La famiglia di fatto, anche omosessuale, è formazione sociale meritevole di tutela.
  • L’art. 8 CEDU protegge la vita familiare, anche se non formalizzata.
  • L’Italia è stata condannata proprio per non riconoscere giuridicamente tali relazioni (Oliari, 2015).

In questo quadro, il giudice non può ignorare una convivenza pluriennale solo perché “non c’era una legge ad hoc”. Farlo significherebbe perpetrare una discriminazione sostanziale.

Verso un diritto affettivo?

La decisione delle Sezioni Unite non è solo una pronuncia sulla durata dell’unione civile. È una affermazione del diritto delle relazioni vissute, del valore giuridico delle scelte condivise prima che fossero legali. È un riconoscimento di dignità giuridica ai percorsi affettivi, anche quelli che hanno camminato nell’ombra di un ordinamento in ritardo.

In un’epoca in cui il diritto deve misurarsi con la complessità delle vite umane, la Corte compie un passo coraggioso: riconoscere che l’amore, se reale, produce effetti giuridici. Anche se è nato prima della legge.

La Sentenza

 

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