Sentenza della Corte costituzionale 68/2025 del 10/03/2025
Si legge di una rivoluzione e forse in un certo senso lo è. Gli obiter dicta della sentenza assumono, forse, più peso della sentenza stessa. Perchè allo stato la Sentenza della Corte Costituzionale 68/2025 appare più come un Permesso Doganale. Qui si apre un’ulteriore discriminazione basata sul reddito, perchè non tutti possono permettersi di andare all’estero.
Ma andiamo con ordine.
A Roma c’è un palazzo austero che si affaccia su Piazza del Quirinale. Dentro, la Corte Costituzionale, non un legislatore, ma in sua mancanza è costretta a tappare i buchi lasciati da una politica “non attenta”. Infatti, più che dormiente, il legislatore pare sprofondato in un coma normativo profondo. La recente sentenza sul riconoscimento del figlio nato da procreazione medicalmente assistita (PMA) praticata da due donne all’estero, ha segnato un ulteriore tassello sul percorso evolutivo. Attenzione però, perchè la Corte non è un legislatore e può basarsi solo sul singolo e concreto caso sottoposto.
La Corte ha ribadito che il ritorno alla realtà è ormai obbligatorio.
La sentenza della Corte Costituzionale oggetto di analisi, infatti, si colloca all’interno di un’evoluzione giurisprudenziale ormai consolidata, volta a colmare le lacune del legislatore in tema di genitorialità derivante da PMA, specialmente in coppie omogenitoriali. La Consulta ha più volte evidenziato l’inerzia legislativa a seguito di sue pronunce di monito (v. sent. n. 230/2020 e n. 32/2021), esercitando in modo progressivo un controllo accentrato volto non solo a garantire la coerenza sistemica dell’ordinamento, ma anche a proteggere situazioni soggettive meritevoli di tutela, ai sensi degli artt. 2, 3, 30 e 117, co. 1, Cost.
Leggi il Testo della Sentenza 68/2025
La Corte: paziente ma non eterna
Con la decisione del maggio 2025 (che segue, con notevole pazienza istituzionale, le sentenze n. 230/2020 e n. 32/2021), la Consulta ha finalmente rotto gli indugi e dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge n. 40 del 2004. Il punto dolente? La mancata previsione che il figlio nato in Italia da PMA praticata all’estero da una coppia di donne possa essere riconosciuto come figlio non solo della madre biologica, ma anche della madre intenzionale.
In altre parole: se due donne scelgono insieme di fare un figlio con l’aiuto della scienza e dell’ovodonazione, e lo fanno fuori dai confini italiani (perché in Italia, si sa, la PMA omosessuale è ancora un tabù degno degli anni ’50), solo una di loro – la madre biologica – ha diritto a comparire sull’atto di nascita. L’altra? A discrezione. Della legge? No. Dell’ufficiale di stato civile, del pubblico ministero, del destino.
La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, l. 40/2004, nella parte in cui non consente il riconoscimento della madre intenzionale, in presenza di una PMA effettuata all’estero in conformità con la legge locale (lex loci actus). L’art. 8 – che disciplina la genitorialità nei casi di PMA – attribuisce lo status di genitore solo al partner che ha dato il consenso alla procedura, ma solo in contesti eterosessuali. Tale previsione, interpretata in modo restrittivo, ha generato una disparità di trattamento fra coppie omosessuali e eterosessuali, contravvenendo ai principi di eguaglianza sostanziale (art. 3, Cost.) e di tutela dell’identità e dei diritti del minore (artt. 2 e 30, Cost.).
Il suicidio assistito tra diritto, etica e vulnerabilità
Una giurisprudenza a singhiozzo
La sentenza mette in fila, con la perizia di un chirurgo legale e la frustrazione repressa di un insegnante di scuola superiore alle prese con studenti svogliati, tutte le incongruenze di un sistema schizofrenico. A cominciare dalla disparità di trattamento: due figli, stessa coppia, stesso metodo di concepimento, stessa clinica estera. Eppure, la prima figlia ha entrambe le madri sul certificato di nascita, il secondo rischia di trovarsi orfano legale di una delle due. Perché? Perché nel frattempo qualcuno si è svegliato (male) e ha deciso di chiedere la rettifica dell’atto.
Un paradosso che farebbe sorridere, se non fosse che nel mezzo ci sono due bambini, una coppia e una lunga lista di diritti fondamentali calpestati con nonchalance.
La Corte denuncia l’incoerenza di una prassi applicativa che genera una disuguaglianza sostanziale tra soggetti identici sul piano fattuale. Il trattamento differenziato fra figli nati da PMA in identiche condizioni, basato esclusivamente sulla discrezionalità dell’interprete (ufficiale dello stato civile, PM, giudice tutelare), viola il principio di uguaglianza e il diritto alla certezza giuridica. Ciò costituisce una lesione dell’identità personale del minore, così come definita dalle convenzioni internazionali (v. art. 8 CEDU, art. 3 Conv. ONU sui diritti dell’infanzia) e dalla giurisprudenza costituzionale e sovranazionale (v. Corte EDU, Labassee c. Francia, Mennesson c. Francia).
Interesse del minore: superstar giuridica o comparsa costituzionale?
La Corte è chiara: l’interesse del minore non è un interesse tiranno. Ma attenzione: non lo è solo quando c’è un controinteresse di pari rango. E qui, lo dice la Consulta, di controinteressi neanche l’ombra. Non si parla infatti di maternità surrogata – che, lo sappiamo, l’ordinamento italiano considera con lo stesso entusiasmo riservato all’evasione fiscale – ma di PMA consensuale, praticata legittimamente all’estero con comune volontà. Ed è la Volontà manifesta ad essere al centro delle argomentazioni della corte.
Dal comune impegno volontariamente assunto discendono i doveri inerenti alla responsabilità genitoriale.
La madre intenzionale, in questo caso, non è una figura accessoria, né un’ospite di passaggio nel progetto genitoriale: è co-protagonista. E l’identità del minore, dice la Corte citando sé stessa (perché quando il legislatore tace, la giurisprudenza si fa eco), si costruisce anche e soprattutto su questa doppia genitorialità.
Il principio dell’interesse superiore del minore, riconosciuto come parametro costituzionale e convenzionale (artt. 3, 30 Cost.; art. 3 Conv. ONU; art. 8 CEDU), viene interpretato in chiave non assolutistica, ma prevalente in assenza di interessi pubblici di pari rango. In questa pronuncia, la Corte osserva come, a fronte dell’assenza di condotte illecite (non trattandosi di gestazione per altri, ma di PMA lecita all’estero), il mancato riconoscimento del rapporto genitoriale comporta un vulnus ingiustificato e sproporzionato ai danni del minore. L’interesse pubblico a preservare un modello unico di genitorialità non può prevalere, in assenza di motivazioni razionali e proporzionate.
Adozione in casi particolari: la stampella rotta
Molti hanno detto: “Ma c’è l’adozione in casi particolari! Basta usarla!”. Sì, come dire a qualcuno con una gamba rotta di prendere una bicicletta in salita.
La Consulta smonta pezzo per pezzo questo fragile argomento: l’adozione richiede tempo, denaro, consenso dell’altro genitore, e soprattutto non produce effetti retroattivi. Il che significa che per mesi, se non anni, il bambino resta giuridicamente “monogenitoriale”, con tutto quello che ne consegue in termini di diritti, doveri, eredità, potestà e – dettaglio non trascurabile – stabilità affettiva e identitaria.
In più, sottolinea la Corte, l’avvio dell’adozione dipende dalla madre intenzionale. Se cambia idea, si ritira, sparisce, nessuno può costringerla a riconoscere il figlio come suo. Il minore, di conseguenza, resta in un limbo giuridico: non abbastanza figlio per essere protetto, troppo figlio per essere ignorato.
L’art. 44, l. 184/1983, che disciplina l’adozione in casi particolari, è stato spesso evocato quale strumento idoneo a regolarizzare la posizione della madre intenzionale. Tuttavia, la Corte evidenzia l’insufficienza strutturale di tale istituto, caratterizzato da iter giudiziari lunghi e incerti, privi di automaticità e retroattività. La discrezionalità giudiziale, il consenso necessario della madre legale, nonché la mancata previsione di effetti pienamente equiparabili alla filiazione naturale, rendono lo strumento inadeguato a tutelare il minore ex ante. Il principio di effettività della tutela impone una genitorialità ex lege, coerente con l’interesse del minore a essere riconosciuto subito come figlio di entrambi i genitori intenzionali.
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Il cortocircuito dell’anagrafe
Il problema non è solo giuridico. È anche amministrativo. Oggi, in Italia, tutto dipende dal funzionario dell’anagrafe e dall’umore del pubblico ministero. Se uno è progressista e l’altro distratto, forse il bambino avrà due mamme. Se uno è formalista e l’altro zelante, no.
La Corte non si limita a lamentarsi. Va oltre: dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 40/2004, nella parte in cui esclude la possibilità che anche la madre intenzionale venga automaticamente riconosciuta come genitore del nato da PMA, se la procedura è stata compiuta all’estero e nel rispetto della lex loci.
Un passo storico, diremmo se fossimo ottimisti. Necessario, diremmo se fossimo giuristi. Tardivo, diremmo se fossimo onesti.
Il nodo interpretativo si riflette in maniera drammatica nella prassi amministrativa. La mancanza di una norma chiara consente interpretazioni difformi da parte degli uffici dello stato civile e della magistratura. Questo crea una frattura nell’uniformità dell’ordinamento e viola l’art. 97 Cost., che impone buon andamento e imparzialità dell’amministrazione. La Corte sottolinea che il riconoscimento della filiazione non può dipendere dall’arbitrarietà territoriale o personale dei funzionari, e richiama l’esigenza di certezza giuridica come elemento essenziale del diritto fondamentale all’identità del minore e alla stabilità dei rapporti familiari.
[…] Sul territorio nazionale, ad oggi, si assiste a una significativa eterogeneità di comportamenti tenuti dagli ufficiali di stato civile in ordine alla decisione di iscrivere o meno il nome della madre intenzionale del nato da PMA, oltre che dai pubblici ministeri in ordine alla decisione, in caso di iscrizione, di chiedere la rettificazione dell’atto. Tale condizione di incertezza e imprevedibilità non è neanche destinata ad avere un termine. Infatti, qualora l’ufficiale di stato civile iscriva l’atto di nascita con l’indicazione anche della madre intenzionale (e il pubblico ministero non proceda immediatamente per la rettificazione), la situazione resta soggetta a una perpetua precarietà, in quanto l’istanza di rettificazione da parte del pubblico ministero non è soggetta a limiti temporali (ex art. 95, comma 2, del d.P.R. n. 396 del 2000).[…]
Il legislatore e l’arte dell’attesa
La vera protagonista assente in tutta questa storia è lei: la legge. O meglio, il legislatore.
[…] questa Corte – venendo in rilievo l’esigenza di assicurare la tutela effettiva di diritti fondamentali, incisi dalle scelte, anche omissive, del legislatore – non può giustificare l’inerzia protrattasi per anni ed esimersi dal porre rimedio nell’immediato al vulnus di protezione che la Costituzione esige che sia assicurato. , riscontrato garantendo il livello di protezione che la Costituzione esige che sia assicurato. […]
Da anni la Corte Costituzionale richiama il Parlamento a una riforma seria della legge 40. Il Parlamento risponde con il silenzio, preferendo rimandare tutto alle aule di giustizia.
Ora non è più possibile. La Corte ha deciso di smettere di fare da supplente permanente e ha preso in mano il registro. L’ha fatto con sobrietà, argomentando con rigore, ma anche con un’ironia sottesa che lascia trasparire una certa esasperazione istituzionale.
La Corte evidenzia, con tono istituzionalmente critico, l’inerzia legislativa di fronte a una materia di stretta attualità costituzionale. Le reiterate sentenze di monito non hanno trovato alcuna risposta normativa, in violazione degli obblighi derivanti dagli artt. 76, 77 e 117, co. 1, Cost. (rispetto delle fonti internazionali), nonché del principio di leale collaborazione tra poteri. Il silenzio del legislatore comporta uno spostamento patologico dell’equilibrio tra giurisprudenza e normazione, costringendo la Corte a intervenire in via sostitutiva per garantire l’effettività dei diritti costituzionali fondamentali.
Genitore non Padre e Madre, non per ideologia, ma per scienza
Una giustizia costituzionale che educa (a forza)
Ciò che colpisce, in questa decisione, è la capacità della Corte di leggere il diritto non come somma di codici e articoli, ma come garanzia concreta della vita delle persone. Di chi nasce, e si trova già alla prima pagina della propria storia senza autore.
In un sistema in cui l’orientamento sessuale dei genitori sembra ancora più importante della loro capacità genitoriale, in cui la Costituzione è spesso citata ma raramente applicata, questa sentenza risuona come un richiamo.
Non tanto (o non solo) al legislatore, ma a un Paese intero che deve decidere se vuole davvero essere moderno, europeo, costituzionale.
Nel frattempo, mentre il Parlamento medita – lentamente, come solo lui sa fare – la Corte veglia. Con la pazienza di chi sa che il diritto può (e deve) essere anche un atto d’amore.
La funzione pedagogica della Corte emerge con forza. La giustizia costituzionale non solo garantisce la conformità delle leggi alla Costituzione, ma assume – in assenza di normazione – un ruolo ermeneutico orientato alla protezione effettiva delle situazioni soggettive, in particolare dei soggetti vulnerabili. Il minore, quale titolare di diritti inviolabili (art. 2 Cost.), deve essere tutelato anche al di là dell’inerzia legislativa, mediante una lettura evolutiva e sistemica del diritto vivente. In tal senso, la pronuncia si allinea con una giurisprudenza costituzionale e convenzionale volta a garantire la piena effettività del principio personalista.
Ma c’è un ma…
Una rivoluzione? No, solo un permesso doganale
Chiariamolo subito: questa non è una rivoluzione. Non stiamo parlando del diritto delle coppie omogenitoriali italiane ad accedere alla PMA nel proprio paese. Quella porta, sbarrata da anni, resta chiusa con doppio giro di chiave, un timbro ministeriale, e una firma sbiadita di un legislatore in ferie. Quello che la Corte ha fatto è un’altra cosa: ha detto che, se una coppia di due donne decide di varcare il confine, e fa tutto in regola in Spagna o in Danimarca, allora al ritorno non deve passare per tre giudici, due adozioni e un corso di sopravvivenza burocratica per far riconoscere la seconda madre. È un gesto di civiltà, sì. Ma restiamo pur sempre nella categoria “diritti a chilometri zero”: validi solo se hai abbastanza benzina per andarli a cercare fuori.
La sentenza in commento non incide minimamente sul divieto interno previsto dall’art. 5 della legge n. 40/2004, che limita l’accesso alla procreazione medicalmente assistita alle sole coppie di sesso diverso, coniugate o conviventi, affette da sterilità o infertilità documentata. Tale divieto è stato ritenuto compatibile con la Costituzione dalla stessa Corte (v. sentenza n. 221/2019), che ha ribadito la discrezionalità del legislatore nel definire i presupposti soggettivi di accesso alla PMA. Pertanto, la decisione oggetto di analisi riguarda esclusivamente gli effetti post factum di una PMA realizzata all’estero, in conformità alla normativa locale. Si tratta, in termini giuridici, di un riconoscimento di effetti giuridici in Italia di un atto lecito ab origine secondo la lex loci actus, non di un superamento del divieto interno. La Consulta si è quindi limitata a sanzionare l’illegittimità costituzionale della discriminazione nel riconoscimento del rapporto genitoriale derivante da tale atto estero, senza entrare nel merito della disciplina nazionale sull’accesso alla PMA.
Tuttavia qualcosa si muove.
Perché nel dirci che non si può discriminare un bambino solo perché ha due madri e una valigia con timbro spagnolo, la Corte ha tracciato una rotta. Ha detto che la volontà conta, che l’interesse del minore viene prima, e che essere genitore non è questione di biologia, ma di responsabilità. È un’onda lunga. Oggi la breccia è all’estero. Ma domani? Le stesse parole potranno bussare alle porte del Tribunale di Roma o di Milano. E se qualcuno vorrà impugnare quella vecchia legge come incompatibile con l’art. 3 o con l’art. 30 Cost., beh — ora ha delle frecce in più nel suo arco.