Quando la legge fa male: la vittimizzazione secondaria nei tribunali italiani

Silvia ha denunciato il marito tre volte in sei anni. Minacce, aggressioni verbali, spintoni. Eppure, quando si è presentata davanti al giudice per discutere l’affidamento della figlia, quell’uomo era lì, seduto al suo fianco, nello stesso ufficio, immersi nello stesso silenzio che Silvia aveva imparato a riconoscere come preludio alla violenza. È stato il tribunale a convocarli insieme: un atto apparentemente “neutro”, previsto dalla legge. Ma non per lei.

In determinati casi, quello che Silvia ha vissuto ha un nome: si chiama vittimizzazione secondaria. È la ferita che le istituzioni infliggono a chi è già stato colpito dalla violenza, un danno che spesso si consuma proprio dove ci si aspetterebbe protezione, cioè nelle aule dei tribunali. Una prassi che si nasconde nel carattere schematico dei procedimenti, nella nebbia della difesa ad oltranza, negli ingranaggi di un sistema privato di risorse e strumenti. Con una politica che tenta di semplificare ciò che non è semplificabile.

Leggi il Report Link in calce

Un sistema cieco alla violenza

In Italia, la vittimizzazione secondaria non è un’eccezione. È una prassi silenziosa, spesso mascherata da burocrazia o da procedure giudiziarie standardizzate, che si ripete in centinaia di procedimenti civili e minorili ogni anno. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, nella sua relazione del 2023, ha lanciato un grido d’allarme:

«La violenza domestica è sistematicamente sottovalutata nei procedimenti che disciplinano l’affidamento dei figli».

La fotografia scattata dalla Commissione è impietosa. Nonostante la ratifica della Convenzione di Istanbul nel 2013, solo a partire dal 2017-2018 la violenza domestica ha iniziato a comparire esplicitamente nelle sentenze. E soltanto dal 2020 la Corte di Cassazione ha cominciato a richiamarla in modo chiaro nei procedimenti civili. Nel frattempo, generazioni di donne e bambini sono passate attraverso processi in cui la violenza subita è stata trattata come un semplice conflitto coniugale. Una lacerazione ridotta a

“disaccordo”.

“La vittimizzazione secondaria — si legge nella relazione — si realizza quando le stesse autorità chiamate a reprimere il fenomeno della violenza, non riconoscendolo o sottovalutandolo, non adottano nei confronti della vittima le necessarie tutele per proteggerla da possibili condizionamenti e dalla reiterazione della violenza.”

Violenza Economica

Come si può riconoscere la Vittimizzazione Secondaria?

La vittimizzazione secondaria in ambito giudiziario è un fenomeno complesso e insidioso. Si verifica quando le vittime di violenza – in particolare donne e minori – non solo non ricevono un adeguato riconoscimento e protezione, ma subiscono ulteriori danni da parte delle istituzioni deputate alla loro tutela. In tribunale, questo può assumere diverse forme: dall’esplicita messa in dubbio della credibilità della vittima, alla patologizzazione delle sue reazioni emotive (viene considerata “non collaborativa”, “ostile” o “manipolatoria”), fino ad arrivare a richieste paradossali come l’obbligo di promuovere la relazione tra il figlio e il padre violento, anche in presenza di episodi documentati di abuso o maltrattamento.

Queste dinamiche si manifestano spesso in modo sistemico: la carenza di formazione specifica di magistrati, avvocati e operatori sociali in materia di violenza di genere, unita alla scarsità di risorse, alla rigidità delle prassi e a una cultura ancora troppo centrata sull’“equilibrio familiare” a ogni costo, portano a trattare la denuncia non come un atto di coraggio, ma come un potenziale tentativo di manipolazione o alienazione. La vittima, anziché essere accolta, viene sovente posta sotto osservazione o addirittura responsabilizzata per il conflitto familiare, come se la violenza subita fosse un problema da “gestire” e non da condannare. Riconoscere questi meccanismi è fondamentale per evitare che il processo giudiziario diventi un’ulteriore fonte di sofferenza e per garantire reali percorsi di giustizia e riparazione.

La dura convivenza con il principio della Bigenitorialità

La convivenza tra il diritto del minore alla bigenitorialità e la necessità di prevenire la vittimizzazione secondaria richiede un approccio equilibrato, centrato sul superiore interesse del minore. Come stabilito anche dalla Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia. Il principio della bigenitorialità – che sancisce il diritto del bambino a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori – non può essere applicato in modo rigido o automatico, soprattutto nei contesti in cui vi siano situazioni di violenza domestica, abuso o relazioni altamente conflittuali.

In questi casi, è fondamentale che i professionisti coinvolti (giudici, avvocati, servizi sociali) siano formati per distinguere tra conflitto genitoriale e violenza, e per valutare attentamente gli effetti psicologici e relazionali sulla vittima, soprattutto quando si tratta di minori. Forzare una relazione con un genitore che incute paura o ha avuto comportamenti lesivi può configurare una forma di vittimizzazione secondaria, minando il senso di sicurezza del bambino e invalidando la sua voce. Il diritto alla bigenitorialità, dunque, non deve mai prevalere automaticamente sulla tutela della salute psicofisica del minore: deve essere bilanciato caso per caso, attraverso strumenti di valutazione specialistica, protezione effettiva e ascolto autentico dei bisogni e dei vissuti del minore. Solo così si può evitare che un principio pensato per garantire benessere diventi, nei fatti, una fonte ulteriore di trauma.

La Bigenitorialità

“Madre ostativa”, un’etichetta pericolosa

Il linguaggio tradisce la cultura dominante. Lo dimostra l’uso diffuso dell’espressione “madre ostativa” — una definizione pseudo-clinica che cela uno stigma culturale: quello della donna che, per “ripicca”, ostacola i rapporti padre-figlio e quindi va punita. Anche se quel padre è violento. Anche se quei figli hanno assistito a episodi traumatici.

Secondo il rapporto GREVIO, pubblicato nel 2020, uno degli ostacoli principali all’applicazione degli articoli 26 e 31 della Convenzione è la mancata formazione degli operatori: molti professionisti dei servizi sociali non riconoscono la violenza come rilevante. Peggio: la responsabilità del disordine relazionale viene spesso attribuita alla madre, anche quando sono presenti denunce e condanne.

La cultura giudiziaria

La radice del problema non è solo normativa, ma profondamente culturale. Il diritto di famiglia italiano, con la sua enfasi sull’affidamento condiviso e sulla bigenitorialità, fatica a riconoscere la violenza come una rottura irreversibile del patto genitoriale. Anzi, sembra che la legge venga spesso piegata per non disturbare l’ideologia della simmetria tra i genitori, anche quando questa simmetria non esiste.

Il risultato? Provvedimenti che ricollocano madri e figli nelle mani degli abusanti, e una giustizia che, anziché sanare, riapre ferite.

Dietro la Sentenza

Un dovere costituzionale e sovranazionale

Contrastare la vittimizzazione secondaria non è solo una questione di sensibilità, ma un obbligo giuridico e morale. La Convenzione di Istanbul è norma vincolante. La Costituzione italiana tutela la dignità (art. 3), la salute (art. 32) e la protezione dell’infanzia (art. 30). L’obbligo è chiaro: non si può permettere che una donna che denuncia venga punita per questo.

Per cambiare rotta servono tre cose: formazione obbligatoria e continua per tutti gli attori del processo; protocolli giudiziari specializzati contro la violenza domestica; e un cambio radicale nel linguaggio e nella cultura delle istituzioni.

Il pregiudizio che uccide due volte

La Convenzione di Istanbul, all’articolo 31, è chiara: nel determinare la custodia e il diritto di visita dei figli, i giudici devono tenere conto degli episodi di violenza domestica. Eppure, nei tribunali italiani, questa valutazione spesso manca. Il risultato? Provvedimenti che impongono alla madre vittima di violenza di condividere le decisioni genitoriali con il proprio aggressore, e bambini affidati congiuntamente a un genitore maltrattante e a una madre traumatizzata.

È una forma di violenza istituzionalizzata che si basa su pregiudizi di genere ancora profondamente radicati. Lo ha denunciato anche la piattaforma internazionale EDVAW, che nel 2019 ha messo in guardia contro l’adozione automatica dell’affido condiviso in contesti segnati dalla violenza. In molte giurisdizioni, ha avvertito la piattaforma, il diritto di visita viene concesso anche quando sussiste un rischio concreto per la sicurezza di madre e figli. Un rischio che in Italia è diventato realtà.

Leggi cieche, prassi rigide e schematiche

Non si tratta solo di ignoranza. In molti casi è la legge stessa a generare vittimizzazione secondaria. Il codice di procedura civile prevede un tentativo obbligatorio di conciliazione davanti al giudice, senza eccezioni per i casi di violenza domestica. Questa rigidità normativa può tradursi nella coabitazione forzata di vittima e carnefice nello stesso spazio processuale, con effetti devastanti.

Lo stesso accade quando consulenti tecnici, servizi sociali o ausiliari del giudice non sono formati per riconoscere la violenza di genere. La donna viene così spesso percepita come “ostruzionista”, “conflittuale” o “manipolativa”, soprattutto quando solleva accuse di violenza non ancora giudizialmente accertate. È il fenomeno del “mother blaming”: la colpa, ancora una volta, ricade su chi cerca protezione.

Un cortocircuito istituzionale

Il rapporto GREVIO del Consiglio d’Europa, redatto dopo un’ispezione in Italia, ha riscontrato gravi carenze nell’applicazione degli articoli 26 e 31 della Convenzione di Istanbul. Ha evidenziato come il mancato coordinamento tra autorità civili, penali e sociali esponga le vittime a nuovi traumi: bambini ascoltati più volte da operatori non specializzati, madri costrette a dimostrare ripetutamente la propria affidabilità genitoriale, mentre la violenza subita rimane sullo sfondo.

GREVIO – Consiglio d’Europa

In alcuni casi il Pubblico Ministero propone persino la decadenza dalla responsabilità genitoriale per la madre, in nome di una presunta “fragilità” indotta proprio dalla violenza subita. È la vittimizzazione secondaria nella sua forma più crudele: trasformare la vulnerabilità in colpa.

In Italia, la vittimizzazione secondaria non è solo il frutto di un radicato pregiudizio culturale, ma anche il risultato concreto di un sistema giudiziario al collasso strutturale. I tribunali per la famiglia sono sovraccarichi, con magistrati costretti a decidere centinaia di casi all’anno senza tempo per approfondire la complessità delle situazioni. I servizi sociali, chiamati a fornire relazioni fondamentali per le decisioni di affidamento, lavorano con organici ridotti all’osso e in condizioni operative che impediscono valutazioni accurate. Questa carenza di mezzi, unita alla mancanza di formazione specifica sulla violenza di genere, produce un effetto devastante: le donne che denunciano vengono spesso ignorate, screditate o penalizzate, mentre il sistema si rifugia in soluzioni standardizzate che mettono sullo stesso piano padri violenti e madri protettive.

In questo vuoto di tutele, il principio del “miglior interesse del minore” rischia di trasformarsi in una formula astratta, usata per giustificare decisioni che espongono i bambini a nuovi traumi.

Forme di vittimizzazione secondaria

La vittimizzazione secondaria assume forme diverse, alcune clamorose e riconoscibili, altre più sottili ma non meno dannose. C’è il caso della donna che, dopo aver denunciato il marito per violenza, si è vista sospendere l’affido perché il giudice ha ritenuto che stesse “strumentalizzando” i figli per vendetta. Oppure quello, altrettanto frequente, della madre obbligata a far incontrare i bambini con un padre violento, in nome del diritto alla bigenitorialità, nonostante le denunce e le relazioni degli specialisti.

Ma la vittimizzazione passa anche da formule ambigue nei verbali come

“madre conflittuale” o “non collaborativa”

che spostano l’attenzione dalla violenza subita al comportamento della vittima. In un caso recente, una madre che ha denunciato anni di violenza domestica è stata accusata dai servizi sociali di “minimizzare l’impatto della violenza” sui figli. Quando invece stava cercando di proteggerli dal trauma senza traumatizzarli ulteriormente.

Anche questo è vittimizzazione: chiedere alle donne di raccontare il dolore in un linguaggio abbastanza “credibile”, ma non troppo emotivo; abbastanza dettagliato, ma non eccessivamente accusatorio. Una sorta di esame di credibilità costante, in cui è facile sbagliare tono, parole o atteggiamento — e pagarne le conseguenze.

Un esempio emblematico di vittimizzazione secondaria si verifica quando, nonostante una minore di 14 anni riferisca in audizione di aver assistito a gravi episodi di violenza paterna e manifesti la volontà di non vedere più il padre, il sistema giudiziario continua a concentrare l’attenzione sulla madre. Sollecitandola a “fare di più” per favorire gli incontri padre-figlia.

Questa dinamica, purtroppo frequente, ignora il vissuto della minore e la sua capacità di autodeterminazione, trasformando la madre da vittima protettiva a ostacolo da rimuovere. In tal modo si deresponsabilizza il genitore autore della violenza, si svaluta la testimonianza della minore e si scarica la responsabilità del fallimento relazionale sulla madre, ignorando completamente il contesto di violenza. È un chiaro esempio di vittimizzazione secondaria istituzionale, che anziché proteggere, infligge ulteriore danno a entrambe.

I principi internazionali che guidano il Diritto

Un cambiamento è possibile (ma non inevitabile)

La Convenzione di Istanbul chiede agli Stati firmatari di evitare la vittimizzazione secondaria attraverso misure concrete: formazione obbligatoria, protocolli specifici, tutela effettiva delle vittime nei procedimenti civili. L’Italia ha iniziato ad adeguarsi, ma le prassi giudiziarie continuano a seguire automatismi che tradiscono le finalità della legge.

La soluzione non è semplice. Serve un cambiamento culturale. Formazione, responsabilità, coraggio. Soprattutto la volontà di guardare negli occhi la violenza, anche quando si nasconde dietro una toga, un verbale o una frase apparentemente neutra in un dispositivo di sentenza.

Silvia, alla fine, ha ottenuto l’affido esclusivo. Ma ci sono voluti anni, tantissime udienze, due CTU e un ricorso in appello. Tre anni durante i quali ha continuato a incontrare il suo aggressore nei corridoi del tribunale. Durante i quali è stata costretta a continuare a conversare con il padre, per evitare di essere ancora etichettata come “madre non collaborativa”.

Perché in Italia, ancora oggi, denunciare un uomo violento può significare doverlo affrontare anche nel nome della legge.

Bisogna sottolineare, tuttavia, che non tutti i casi sono uguali, ci sono anche casi di denunce finte, di uomini che subiscono violenza. Manca in Italia una legge sull’abuso del diritto, per questo i casi non possono essere trattati tutti allo stesso modo, non esiste una prassi standardizzata da seguire. Non vi può essere una semplificazione di questa materia. Non possiamo accettare una politica che cerca sempre e solo di semplificare ciò che è complesso.

Post Scriptum:
In uno Stato di diritto, il processo non può diventare un secondo atto della violenza. La giustizia, quando non riconosce la violenza, la legittima. E quando non protegge la vittima, la espone. È tempo di cambiare.

Relazione: LA VITTIMIZZAZIONE SECONDARIA