Nel panorama delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, la decisione della Grande Camera nel caso Mansouri c. Italia illustra chiaramente alcuni principi fondanti della Convenzione, ribadendo l’importanza dell’attivazione tempestiva ed efficace dei rimedi interni come condizione necessaria per l’accesso alla giurisdizione sovranazionale. L’occasione è fornita da un ricorso proposto da un cittadino tunisino espulso dall’Italia nel 2016, dopo aver tentato di farvi ritorno senza titolo valido. Si sosteneva che l’espulsione e le condizioni in cui si erano svolte le operazioni avevano determinato una violazione degli articoli 3, 5 e 13 della Convenzione.
La Corte ha però dichiarato il ricorso in parte irricevibile, in parte manifestamente infondato. A una prima lettura, si tratta di una pronuncia “negativa”; ma è proprio in questo diniego che si annidano spunti di grande rilevanza, tanto per la riflessione teorica quanto per la pratica giuridica. La decisione, infatti, si segnala per l’articolata riaffermazione del principio di sussidiarietà, per l’applicazione esigente del requisito dell’esaurimento dei rimedi interni e per un uso calibrato dell’onere della prova in materia di trattamenti inumani o degradanti. In un contesto politico e giuridico sensibile come quello delle migrazioni forzate e dei rimpatri coattivi, questi passaggi meritano un’attenta ricostruzione.
Partiamo col dire che ricorrere direttamente alla CEDU è possibile
la regola dell’esaurimento dei rimedi interni prevista dall’art. 35 § 1 CEDU non è assoluta. Esistono eccezioni ben riconosciute e consolidate nella giurisprudenza della Corte EDU, e il mancato esperimento di tutti i ricorsi interni non comporta automaticamente l’irricevibilità del ricorso. Vediamo i casi più rilevanti:
Rimedi non effettivi o meramente teorici
Se i rimedi interni non sono effettivi, ossia non offrono una prospettiva reale di successo, non vi è obbligo di attivarli. Lo ha chiarito già la sentenza Akdivar c. Turchia (1996), stabilendo che un rimedio è effettivo solo se è accessibile, adeguato e praticabile nelle circostanze del caso concreto.
Ad esempio, se in un ordinamento nazionale un ricorso risulta sistematicamente inefficace o troppo lento rispetto alla gravità della violazione (pensa a casi urgenti come il trattenimento illecito di stranieri), non è richiesto al ricorrente di esperirlo.
La Durata dei Procedimenti in Violazione all’Art. 8 CEDU
Rimedi inaccessibili di fatto
Un rimedio può essere ineffettivo non per la legge, ma per le condizioni del ricorrente: ad esempio, se si trova in stato di detenzione, isolamento, o senza accesso a una difesa legale concreta. In M.S.S. c. Belgio e Grecia (2011), la Corte ha ritenuto che un richiedente asilo in Grecia non avesse accesso effettivo ai rimedi interni, nonostante la loro esistenza formale.
Assenza di un ricorso specifico per il tipo di violazione lamentata
Non è necessario attivare qualsiasi rimedio: solo quelli pertinenti alla doglianza convenzionale. In Balogh c. Ungheria (2004), ad esempio, non è stato richiesto un ricorso generico perché mancava uno strumento idoneo a contestare un trattamento degradante ricevuto durante la detenzione.
Pratica amministrativa o giudiziaria contraria alla Convenzione
La Corte ha riconosciuto che non si è tenuti a ricorrere a strumenti interni quando è provata una prassi sistemica o una giurisprudenza costante che rende tali rimedi inutili o inefficaci (D.H. c. Repubblica Ceca, 2007).
È possibile adire la Corte EDU anche senza aver esaurito tutti i rimedi interni, ma a condizione che il ricorrente dimostri che tali rimedi:
- erano inefficaci, oppure
- erano inaccessibili, oppure
- non erano pertinenti alla violazione lamentata.
La Corte non presume l’inefficacia dei rimedi: spetta al ricorrente l’onere di dimostrarla. In questo senso, la prova della non effettività è tanto importante quanto quella della violazione stessa.
Il principio di sussidiarietà come chiave di lettura
Il primo nodo concettuale attorno a cui ruota la sentenza è il richiamo alla funzione sussidiaria della Corte di Strasburgo. La Corte ha ribadito che il sistema della CEDU non è un meccanismo di controllo primario, bensì un apparato giurisdizionale complementare rispetto agli ordinamenti nazionali, come chiarito fin dalle pronunce Handyside c. Regno Unito (1976) e Soering c. Regno Unito (1989). Tale funzione impone che le doglianze vengano prima vagliate dagli organi giurisdizionali interni, che restano i “giudici di prima linea” nella protezione dei diritti convenzionali.
Nel caso in esame, il ricorrente non aveva impugnato in sede interna né la privazione della libertà durante il rimpatrio né le condizioni materiali in cui si era svolto il viaggio, né aveva intrapreso alcuna azione risarcitoria ai sensi dell’art. 2043 c.c. o cautelare ex art. 700 c.p.c. La Corte ha ritenuto tali strumenti sufficientemente efficaci — anche in assenza di una consolidata giurisprudenza nazionale di riferimento — e ha affermato, con un passaggio di particolare forza, ma soprattutto dall’importante indicazione che
«non spetta alla Corte sostituirsi alla giurisdizione interna nell’attivazione dei rimedi: è il ricorrente a dover contribuire allo sviluppo giurisprudenziale nazionale».
Revocazione per Violazione della CEDU
Questo passaggio, in apparenza tecnico, cela in realtà un’importante apertura: il diritto interno può evolversi anche grazie al contenzioso portato dai ricorrenti, i quali non possono limitarsi ad attendere sentenze favorevoli altrui.
La giurisprudenza di Strasburgo è da tempo coerente in tal senso. Già in Akdivar c. Turchia (1996), la Corte aveva chiarito che il rimedio interno non deve essere solo teorico, ma offrire una prospettiva reale di successo, pur non essendo garantito il suo esito positivo. Questo parametro è stato qui riaffermato (§ 74 della sentenza), estendendone l’applicazione anche a rimedi civilistici e cautelari, laddove idonei a produrre effetti concreti.
L’art. 5 CEDU e la privazione della libertà in fase di rimpatrio
Un secondo profilo giuridico di rilievo attiene all’interpretazione dell’art. 5 CEDU, che tutela il diritto alla libertà e alla sicurezza personale. Il ricorrente sosteneva di essere stato privato della libertà in modo illegittimo, senza informazione sui motivi del provvedimento, né possibilità di contestarne la legittimità. A suo avviso, la permanenza forzata a bordo della nave usata per il rimpatrio integrava una detenzione “di fatto”.
La Corte, senza entrare nel merito della qualificazione giuridica della situazione, ha però rilevato l’assenza di contestazioni giurisdizionali in Italia. Anche questo passaggio è giuridicamente fecondo. Implicitamente, infatti, la sentenza sembra riconoscere che forme “atipiche” di privazione della libertà, se protratte e coercitive, possono rientrare nell’ambito dell’art. 5, come già osservato in casi precedenti quali Guzzardi c. Italia (1980), in cui una misura di soggiorno obbligato su un’isola fu considerata una limitazione grave e assimilabile alla detenzione.
In altri casi, come M.A. c. Cipro (2013), la Corte ha affermato che anche misure amministrative dissimulate possono configurare una violazione dell’art. 5. Tuttavia, ciò richiede una puntuale attivazione dei rimedi, che nel caso Mansouri è mancata. È questa l’evidente lezione metodologica: anche nei contesti migratori — dove il confine tra controllo amministrativo e coercizione è labile — i diritti della persona devono essere difesi prima di tutto nei tribunali interni, e con tempestività.
Obbligo di Rapporti Sessuali e Violazione dell’Art. 8 CEDU
L’art. 3 e l’onere probatorio “oltre ogni ragionevole dubbio”
Ancora più stringente si rivela l’analisi della Corte riguardo alla doglianza fondata sull’art. 3 CEDU, che vieta trattamenti inumani o degradanti. Il ricorrente lamentava condizioni umilianti e lesive della dignità durante il viaggio di ritorno. Tuttavia, la Corte ha osservato che egli era in contatto con la famiglia, disponeva del proprio cellulare e aveva ricevuto assistenza legale, elementi che escludevano un regime di isolamento o vulnerabilità estrema. Soprattutto, ha ritenuto non superato il severo onere probatorio “oltre ogni ragionevole dubbio”, richiesto per accertare la violazione dell’articolo in questione.
Questa soglia elevata, elaborata già in Ireland c. Regno Unito (1978) e ribadita in Jalloh c. Germania (2006), mira a evitare un uso strumentale o meramente soggettivo dell’art. 3, tutelando al contempo l’integrità del giudizio convenzionale. L’approccio della Corte è particolarmente rigoroso quando — come in questo caso — non risultano elementi obiettivi, medici o testimoniali a conferma della versione del ricorrente.
Il destino dell’art. 13: diritto a un ricorso effettivo
Infine, l’art. 13 CEDU, che garantisce il diritto a un ricorso effettivo contro le violazioni della Convenzione, è stato rigettato in quanto strettamente dipendente dalla debolezza dell’asserita violazione dell’art. 3. Anche qui la Corte impiega un criterio di “riflessività”: se la violazione sostanziale non è provata, non può configurarsi un deficit dei rimedi. Tale logica è coerente con la giurisprudenza in materia (Kudła c. Polonia, 2000), secondo cui il diritto a un ricorso effettivo esiste solo ove vi sia una violazione almeno argomentabile e verosimile.
Il caso Mansouri c. Italia offre uno spaccato nitido del funzionamento del sistema CEDU: un meccanismo giurisdizionale che non supplisce automaticamente alle inefficienze degli Stati, ma che ne sollecita l’attivazione tramite l’azione responsabile e informata dei singoli. La pronuncia riafferma la centralità del contenzioso interno, l’importanza della prova documentale e oggettiva e la necessità di un uso rigoroso e non strumentale della giurisdizione sovranazionale. È un monito per gli operatori del diritto, e al contempo una lezione sul metodo giuridico, che richiede attivismo, precisione e consapevolezza strategica.
In definitiva, la Corte EDU ha confermato che i diritti, per essere tutelati efficacemente, devono essere prima agiti, e che la garanzia convenzionale è tanto più forte quanto più salda è la giurisdizione nazionale cui essa si appoggia.