Il diritto a essere dimenticati: note a Cass. civ., Sez. I, 30 maggio 2025, n. 14488
Partendo da una massima di stampo processuale, che va in controtendenza rispetto alle decisioni stringenti degli ultmini anni, la Cassazione ci da la possibilità di affrontare un tema importante ed estremamente attuale l’Autodeterminazione Informativa.
La Cassazione, come sappiamo, è un giudice di legittimità e non di fatto: valuta la correttezza del procedimento e dell’interpretazione del diritto, non rivede i fatti. Tuttavia in questa pronuncia afferma che
“nel giudizio di bilanciamento tra il diritto all’oblio e il diritto di cronaca giudiziaria, la valutazione del giudice di merito è censurabile in cassazione, per il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., ove i motivi di doglianza, lungi dall’investire l’accertamento del fatto nella sua materialità storica, riguardino la correttezza del metodo seguito nonché il rispetto dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità, poiché, essendo coinvolto il diritto fondamentale al controllo dell’insieme delle informazioni che definiscono l’immagine “sociale” (la cd. autodeterminazione informativa), l’atteggiarsi del singolo fatto concreto finisce con il penetrare nel cuore stesso delle valutazioni, concorrendo a determinare il senso o il verso del bilanciamento, il quale presuppone un complesso giudizio nel quale assumono rilievo decisivo la notorietà dell’interessato, il suo coinvolgimento nella vita pubblica, l’oggetto della notizia e il tempo trascorso.”
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In sostanza, il tribunale superiore ritiene ammissibile e fondata l’analisi del metodo con cui il giudice ha bilanciato i diritti, e rigetta l’eccezione che voleva impedirne l’esame perché “sarebbe stato solo un tentativo di rimettere in discussione la valutazione compiuta dal Tribunale”.
Quindi, la Corte può entrare nel merito del bilanciamento, ma entro i limiti del controllo sulla correttezza del metodo e dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza proprio in virtù dell’importanza dei diritti da tutelare e della complessa tensione con altri diritti parimenti di valore costituzionale. La Corte in questa sentenza crea una metodologia da dover seguire nella valutazioni di questo genere di casi.
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Il Diritto all’Oblio
il diritto all’oblio nel paesaggio giurisprudenziale italiano ed europeo, è da tempo oggetto di un equilibrio delicato, sospeso tra la libertà di informazione e la tutela della persona. Con la sentenza n. 14488 del 30 maggio 2025, la Corte di Cassazione è tornata a incidere in questo campo con un intervento che non solo conferma la linea evolutiva già avviata dalla giurisprudenza nazionale ed eurounitaria, ma ne affina i contorni, approfondendo la relazione – talora sottovalutata – tra identità digitale, dignità personale e proporzionalità del trattamento informativo.
La Corte afferma che non basta stabilire se una notizia sia vera. Bisogna chiedersi se sia ancora giusta.
E la verità, come spesso accade, non è sufficiente. Serve anche il contesto, serve il tempo. Serve l’umanità.
Nella sentenza, la Corte richiama un principio che suona quasi poetico, e invece è profondamente giuridico:
Autodeterminazione Informativa.
Significa che ciascuno di noi deve poter decidere, entro certi limiti, quali tracce lasciare nel mondo digitale. Non si tratta di riscrivere la storia – l’articolo non va rimosso, ma solo “deindicizzato”. In altre parole: il contenuto resta, ma non è più a portata di click ogni volta che qualcuno digita il tuo nome. Non scompare, ma smette di perseguitare.
Immaginiamo C., una persona la cui esistenza è stata oscurata da una notizia su presunte illecite connessioni mafiose. Anni dopo, la stessa giustizia lo assolve con sentenza definitiva, ovvero sconta completamente la sua pena. Quelle notizie, però, non scompaiono: resta visibile attraverso Google, come un’ombra digitale che continua ad accompagnarlo ogni volta che qualcuno digita il suo nome.
Il diritto all’autodeterminazione informativa
pur non essendo nominativamente previsto nella nostra Costituzione, si configura come una delle manifestazioni più pregnanti dei diritti della personalità. Si tratta della libertà di ciascun individuo di decidere quando, come e in quale misura rendere accessibili ad altri i propri dati personali. Un concetto che, sul piano giuridico, ha trovato una formulazione particolarmente avanzata in numerose sentenze europee.
Tuttavia, pur nella sua rilevanza, l’autodeterminazione informativa non è un diritto assoluto e illimitato. Come tutti i diritti fondamentali, può subire restrizioni qualora entri in conflitto con interessi collettivi di pari rilievo costituzionale. Tali limitazioni, però, devono sempre rispettare il principio di proporzionalità, bilanciando in modo equo la tutela dell’individuo con gli interessi pubblici eventualmente coinvolti.
In Italia, la Corte costituzionale ha ricondotto il fondamento di questo diritto principalmente agli articoli 2, 14 e 15 della Costituzione, che garantiscono rispettivamente i diritti inviolabili della persona, l’inviolabilità del domicilio e la libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. A livello sovranazionale, la protezione dell’autodeterminazione informativa si riflette in disposizioni centrali come l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e gli articoli 7, 8 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che pongono la tutela dei dati personali al centro di una più ampia riflessione sui diritti digitali nell’epoca contemporanea.
Il tempo del diritto
Per comprendere l’impatto di questa sentenza, dobbiamo fare un passo indietro, nel tempo e nel pensiero. Per decenni, il diritto ha custodito l’archivio della memoria collettiva con la cautela del bibliotecario: tutto doveva essere preservato, nulla dimenticato. E così, una volta pubblicata, la notizia diventava eterna. Ma la rete ha trasformato quella cautela in condanna. I motori di ricerca hanno fatto della permanenza informativa una forma di sorveglianza sociale. E il tempo, che nel diritto ha sempre avuto valore, ha cominciato a smettere di contare.
Fu il GDPR, il regolamento europeo n. 2016/679, a introdurre con fermezza un principio nuovo: il diritto a essere dimenticati. L’art. 17 lo chiama proprio così: diritto alla cancellazione. Un diritto che nasce quando i dati non sono più necessari, quando diventano sproporzionati rispetto agli scopi, quando ledono. Ma il GDPR non è bastato a scardinare l’ambiguità della rete, dove la notizia resta vera ma diventa tossica.
Il diritto all’oblio tutela la “identità dinamica” della persona, riconoscendo che, con il trascorrere del tempo, può venir meno l’attualità di una notizia originariamente legittima, pubblicata in base a criteri di verità, pertinenza e continenza. In questi casi, la libertà di manifestazione del pensiero si bilancia con la legittima richiesta dell’interessato di non essere più ricordato in relazione a fatti ormai superati.
Il caso oggetto della recente pronuncia la numero 14488, del 30/05/2025
nella sua apparente semplicità, è emblematico: un soggetto già assolto in sede penale, privo di attuali carichi giudiziari, si oppone alla persistente reperibilità online, attraverso i motori di ricerca, di un articolo giornalistico datato, che lo accostava – pur senza condanne – a vicende di criminalità organizzata. Non si trattava di una richiesta di rimozione della notizia, bensì di deindicizzazione: un’esigenza che si pone con sempre maggiore frequenza dinanzi al fenomeno dell’ipersorveglianza algoritmica, dove il solo fatto di essere associati, tramite una ricerca nominale, a fatti pregiudizievoli anche remoti, può alterare significativamente la percezione pubblica di un individuo.
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Contesto e base normativa: da GDPR, precedenti analoghi al diritto costituzionale
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6919/2018
ha chiarito che il diritto all’oblio non è assoluto nel senso che il solo decorso del tempo assegna sempre la priorità all’interesse del titolare dei dati rispetto a chi li ha divulgati. Esso richiede la verifica di un concreto pregiudizio alla personalità dell’individuo, ad esempio alla reputazione o alla riservatezza. La prevalenza del diritto all’oblio si manifesta solo se non sussistono ragioni di interesse pubblico attuale alla diffusione, come contributi a dibattiti di rilevanza sociale, giustizia o cultura, o quando non si tratti di soggetti di particolare notorietà pubblica. Fondamentale è altresì che la diffusione rispetti criteri di verità e misura, evitando insinuazioni personali e garantendo la possibilità di replica all’interessato.
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 19681/2019
hanno ulteriormente precisato che nel bilanciamento tra diritto alla riservatezza (nell’ambito del diritto all’oblio) e diritto alla rievocazione storica, il giudice deve valutare se sussiste un interesse pubblico concreto e attuale alla menzione di persone coinvolte in eventi passati. Tale menzione è lecita solo se il soggetto mantiene un ruolo pubblico o notorietà attuale; in caso contrario, prevale il diritto alla riservatezza, soprattutto quando la rievocazione danneggi dignità e onore e la memoria collettiva di tali fatti si sia ormai spenta.
Il contesto normativo sul quale ruota la sentenza è articolato attorno all’Art. 17 del GDPR (Reg. UE 2016/679): sancisce il diritto a ottenere la cancellazione dei dati personali, persino già pubblici, al D.lgs. 196/2003 e D.lgs. 101/2018 che attuano e integrano il GDPR nel contesto italiano e la Carte UE agli articoli 7 e 8 (riservatezza e protezione dei dati) della Carta dei diritti fondamentali.
La Corte affronta il tema nella sua complessità, muovendo da un’analisi articolata della normativa europea e della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Centrale, come noto, è l’art. 17 del Regolamento UE 2016/679 (GDPR), che riconosce il diritto alla cancellazione dei dati personali – il cosiddetto diritto all’oblio – ogniqualvolta essi non siano più necessari rispetto alle finalità per cui sono stati raccolti, o siano divenuti sproporzionati rispetto ai diritti e interessi dell’interessato.
Ma non è l’unico parametro. La Corte richiama anche la fondamentale sentenza Google Spain (CGUE, C-131/12, 2014), nella quale si afferma il cd. diritto al delisting. Ovvero il diritto dell’interessato a ottenere la rimozione di determinati risultati dai motori di ricerca (come Google) quando questi siano associati al proprio nome. L’obbligo, quindi, per i gestori di motori di ricerca di rimuovere, su richiesta dell’interessato, i link a pagine che contengano informazioni obsolete o non più rilevanti, sebbene veritiere. La decisione ha costituito una svolta, introducendo il concetto di bilanciamento dinamico tra diritto all’informazione e tutela della vita privata. Il cuore della decisione sta nel bilanciamento tra interessi contrapposti: da una parte, i diritti fondamentali alla vita privata e alla protezione dei dati personali sanciti dagli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE; dall’altra, l’interesse economico del motore di ricerca e il diritto del pubblico ad accedere all’informazione.
Secondo la Corte, prevalgono i diritti dell’interessato, soprattutto quando l’informazione non riveste più un interesse pubblico attuale. Non si tratta di cancellare l’articolo alla fonte, ma di impedire che venga trovato attraverso una ricerca per nome, sottraendolo così alla visibilità che la rete conferisce.
Il delisting, dunque, non elimina l’informazione dalla rete, ma la rende meno accessibile, in ossequio a un principio chiave del diritto europeo dei dati: l’autodeterminazione informativa, che include anche il potere di non essere eternamente legati a vicende passate, ormai non più rilevanti per l’interesse pubblico.
Proprio il sopracitato bilanciamento è al centro della motivazione della Cassazione, che nella sentenza n. 14488/2025 mette a fuoco un principio determinante nei suoi obiter dicta:
la persistenza online di una notizia vera può risultare illecita, se la sua diffusione automatica e permanente – mediante motore di ricerca – produce un danno ingiustificato alla reputazione, alla dignità e all’identità della persona.
Il dato normativo, quindi, viene interpretato alla luce dei principi costituzionali e sovranazionali. La Corte richiama espressamente l’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (protezione dei dati personali) e l’art. 10 della Convenzione EDU (libertà di espressione), sottolineando la necessità di un equilibrio ponderato e non gerarchico tra i due valori. Ciò che cambia è il contesto: in assenza di un interesse pubblico attuale alla notizia, prevale il diritto dell’interessato a sottrarsi all’associazione automatica e potenzialmente stigmatizzante del proprio nome con eventi passati e ormai superati.
Di grande interesse è anche il modo in cui la Corte distingue tra diritto alla cronaca e accessibilità automatizzata dell’informazione. Il diritto all’oblio non implica, infatti, la cancellazione dell’articolo o l’impossibilità di accedervi: la notizia rimane pubblicamente disponibile, ma non è più collegata direttamente al nome dell’interessato tramite motore di ricerca. Il punto non è dunque la verità, ma la contestualizzazione nel tempo:
l’informazione può restare, ma non può diventare una forma di marchiatura sociale.
Il giudice deve tenere conto del complesso dei fatti sotto tutti gli aspetti.
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L’elemento della proporzionalità emerge così come principio cardine. L’interesse del pubblico a conoscere un’informazione (anche potenzialmente lesiva) deve essere valutato non in astratto, ma in relazione al tempo trascorso, all’attualità del fatto, al ruolo ricoperto dall’interessato, all’impatto reputazionale. Ed è proprio in questo bilanciamento, attentamente argomentato dalla Corte, che si coglie l’approccio moderno alla tutela dell’identità digitale come espressione della personalità e della libertà individuale.
La decisione, pur nel solco delle precedenti pronunce (tra cui si ricordano Cass. civ. 5525/2012, 7559/2020, 2893/2023), rappresenta un’evoluzione. Non solo ribadisce il diritto all’oblio come diritto fondamentale, ma lo inserisce in una prospettiva che tiene conto della trasformazione tecnologica del contesto comunicativo. Non siamo più nel tempo della stampa e degli archivi cartacei: oggi il danno alla reputazione può derivare dalla mera indicizzazione algoritmica, dalla rapidità e automatismo con cui il passato viene evocato in rete.
In tal senso, la sentenza si segnala per un’apertura concettuale:
non è l’oblio inteso come cancellazione del passato a prevalere, ma la necessità di limitare l’eterna attualità del passato nell’ecosistema digitale.
Il diritto all’oblio, così inteso, non cancella, ma attenua. Non nasconde, ma ricontestualizza.
In conclusione, Cass. n. 14488/2025 si pone come una tappa significativa nel cammino della giurisprudenza italiana verso una tutela più matura dell’identità digitale. Conferma l’approccio dialogico con la Corte di Giustizia, approfondisce il concetto di proporzionalità, e si misura con le sfide poste dal diritto in rete. Il suo valore non risiede solo nella decisione adottata, ma nella cornice teorica che offre: quella di un diritto che non dimentica la verità, ma non accetta che essa diventi una condanna permanente.