La parola pubblica, nel contesto moderno, assume un potere che va oltre il contenuto semantico delle frasi. Ciò che viene detto in televisione, sui giornali o sui social media può riverberarsi ben oltre le intenzioni di chi parla. In questo scenario, il diritto di critica politica rappresenta uno degli snodi fondamentali in cui si incontrano e, talvolta, si scontrano, la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e il diritto all’onore e alla reputazione (artt. 2, 3 e 24 Cost.). La recente sentenza della Corte di Cassazione (Sez. 5 penale, n. 41869/2013; n. 48698/2014; n. 2473/2019; n. 4530/2022) offre una preziosa occasione per riflettere su questi temi con rigore giuridico e profondità narrativa.

Sentenza in Calce


Il diritto di critica politica: natura, limiti e giurisprudenza

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che il diritto di critica, e in particolare di critica politica, è un diritto fondamentale e irrinunciabile in una società democratica (Cass. pen., Sez. 5, n. 4530 del 10/11/2022, Alloro; Sez. 5, n. 31263 del 14/09/2020, Capozza; Sez. 5, n. 41767 del 21/07/2009, Z.). Tuttavia, questo diritto non è assoluto: esso trova il proprio limite nella verità del fatto criticato, nell’interesse pubblico alla notizia e nella continenza espressiva, ossia nella forma civile della critica.

Nel caso in esame, la Suprema Corte ha riconosciuto che la critica politica è legittima anche quando assume toni aspri o esprime giudizi severi, a condizione che:

  • Il fatto oggetto di critica sia vero, o quanto meno verosimile secondo una diligenza professionale del giornalista;
  • Vi sia un interesse pubblico alla conoscenza del fatto;
  • La critica non degeneri in attacco personale, ossia non abbia come obiettivo la mera denigrazione del soggetto.

Questi criteri sono la trasposizione giuridica dei principi espressi dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), come interpretati dalla giurisprudenza della Corte EDU (si veda Lingens c. Austria, 1986).

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Il contesto comunicativo: la parola nel suo habitat

La dimensione del “contesto” è diventata un elemento centrale nella valutazione della natura diffamatoria di una frase. Lungi dall’essere un semplice contenitore, il contesto è ciò che dà significato alla parola. Una frase neutra, se collocata in un contesto suggestivo o allusivo, può acquisire una valenza insinuante e lesiva.

La Cassazione ha chiarito (Cass. pen., Sez. 5, n. 9839 del 26/03/1998, Scalfari) che anche una frase apparentemente non diffamatoria può diventarlo per effetto del contesto in cui viene inserita. Ma come si valuta il contesto? Attraverso la figura del “lettore medio” o, nel caso delle trasmissioni televisive, del “telespettatore medio”.


Il lettore medio e il telespettatore medio: strumenti interpretativi

La giurisprudenza ha da tempo elaborato la nozione di “lettore medio” (Cass. pen., Sez. 5, n. 10967 del 14/11/2019, Mauro), inteso come colui che non si limita alla lettura del titolo o al colpo d’occhio sulle immagini, ma legge integralmente l’articolo, ne coglie il tono, il contesto e le sfumature, senza bisogno di particolari sforzi di interpretazione.

La sentenza qui esaminata estende questa figura al “telespettatore medio”, specificando che anche nel caso della comunicazione audiovisiva si deve presumere un destinatario dotato di ordinaria attenzione e discernimento. Il telespettatore medio, quindi, è colui che ascolta un’intera trasmissione di approfondimento (non uno spezzone su un social network) e è in grado di contestualizzare le affermazioni fatte nel corso della discussione.

L’analogia con il lettore medio è fondata sul principio di equivalenza tra i mezzi di comunicazione, anche se – come osserva il Procuratore Generale nella requisitoria – i ritmi cognitivi possono essere diversi. Tuttavia, per la Corte, questa differenza non giustifica uno standard inferiore nella valutazione della comprensione del messaggio.

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Accostamento fuorviante e contesto equivoco: strumenti di distorsione

Uno degli snodi più delicati della giurisprudenza recente riguarda l’accostamento fuorviante, ovvero l’inserimento di una notizia vera e non offensiva in un contesto tale da alterarne il significato percepito.

Nel caso in esame, l’imputato aveva parlato di un finanziamento lecito ricevuto da un sindaco, ma l’accostamento del fatto ad un dibattito su casi di corruzione aveva, secondo i giudici di merito, prodotto un contesto equivoco capace di ingenerare nel pubblico l’idea che quel finanziamento fosse una “mazzetta”.

La Cassazione ha invece chiarito che tale deduzione è frutto di una interpretazione arbitraria e non fondata sul discorso complessivo dell’imputato.

Infatti:

  • l’imputato aveva esplicitamente dichiarato la liceità del finanziamento;
  • non aveva mai fatto riferimento a tangenti o mazzette, né per Sala né per altri;
  • il contesto della trasmissione era più etico-politico che penale.

Da ciò discende una importante affermazione: l’accostamento fuorviante può assumere rilievo penale solo se altera irrimediabilmente il significato originario di una frase, rendendola oggettivamente diffamatoria agli occhi della persona media.


Contesto, significato e libertà: un equilibrio costituzionale

La Cassazione, con un’affermazione di alto valore sistematico, ricorda che l’eventuale significato diffamatorio che una frase può assumere solo a causa del contesto deve comunque essere “non percepibile” dal lettore o telespettatore medio. Ciò significa che la valutazione del giudice non può basarsi su una lettura soggettiva, sensibile, esasperata, ma deve ancorarsi ad uno standard oggettivo e ragionevole.

La libertà di espressione, soprattutto quando esercitata da un giornalista, va tutelata non solo perché garantita dall’art. 21 della Costituzione, ma anche perché svolge una funzione democratica essenziale: controllare e criticare il potere.

Il diritto di critica politica, pertanto, deve essere valutato tenendo conto del:

  • contenuto della critica;
  • forma espressiva adottata;
  • veridicità del fatto da cui muove;
  • contesto comunicativo.

E è proprio quest’ultimo elemento, il contesto, che costituisce oggi uno dei principali terreni di conflitto giurisprudenziale.

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Una grammatica della responsabilità

La sentenza analizzata, confermata dalla successiva giurisprudenza e in coerenza con quella precedente, dimostra quanto il diritto di critica, il contesto comunicativo e l’accostamento fuorviante siano strumenti giuridici delicati, da maneggiare con precisione chirurgica.

In un’epoca di comunicazione istantanea, in cui tutto può essere strumentalizzato o decontestualizzato, la giurisprudenza si trova dinanzi ad una sfida inedita: proteggere la libertà di espressione senza consentire abusi dell’informazione.

La soluzione, come indica la Cassazione, non può essere la censura, ma la fiducia nella capacità del cittadino medio di comprendere, contestualizzare e valutare.

Ed è proprio questa fiducia nella “persona media” il segno più alto di una democrazia matura.


  • Costituzione della Repubblica Italiana, art. 21.
  • CEDU, art. 10.
  • Cass. pen., Sez. 5, sentenze: n. 4530/2022, n. 31263/2020, n. 41767/2009, n. 9839/1998.
  • Corte EDU, Lingens c. Austria, 1986.

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