Il ritorno maldestro del proibizionismo
“E quando non riuscivano più a distinguere il fiore dal frutto, la legge cominciò a punire entrambi.”
Con l’articolo 18 del Decreto-legge sicurezza, il legislatore italiano è intervenuto in modo tanto drastico quanto ambiguo e propagandistico su una materia che, solo fino a pochi anni fa, era oggetto di una politica di prudente ma significativa apertura: la coltivazione della canapa a fini agroindustriali. Imponendo un divieto della canapa a dir poco maldestro.
Un comparto, va ricordato, non solo florido, ma espressamente incentivato dal legislatore del 2016 con la legge n. 242, nella consapevolezza delle potenzialità ambientali, economiche e produttive della pianta. Ute un settore che in Italia vale(va) 2 miliardi di euro e 20.000 posti di lavoro.
Link alla relazione in calce
Oggi, con un colpo, maldestro, di penna, quella stessa filiera è divenuta campo minato, in cui si rischia la sanzione penale anche solo per la detenzione di infiorescenze, un tempo trattate come prodotti a uso florovivaistico. La nuova disciplina appare, infatti, non solo come un ritorno al proibizionismo tout court, ma come un cambio di paradigma regolativo senza rete, senza transizione, senza chiarezza.
Dalla promozione alla punizione: il testo dell’art. 18 sul Il Divieto della Canapa
Il nuovo art. 18 modifica in modo sostanziale gli articoli 1, 2 e 4 della legge n. 242/2016. Lo fa con una tecnica legislativa che il Massimario del CSM ha definito elegantemente “singolare”, se non ibrida, poiché incorpora nel corpo normativo stesso l’intentio legislatoris:
“evitare che l’assunzione di prodotti costituiti da infiorescenze possa favorire comportamenti pericolosi per la sicurezza pubblica e stradale”.
È, a tutti gli effetti, una norma che si giustifica da sé. E che, come tale, si espone al vaglio giudiziale, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 46/2024:
“i mezzi scelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto alle finalità perseguite”.
Leggi anche: Responsabilità della P.A.
L’infiorescenza proibita
Il cuore della restrizione sta nell’introduzione del nuovo comma 3-bis dell’art. 1 e nel parallelo divieto dell’art. 2, comma 3-bis, secondo cui è vietata – sotto pena delle sanzioni previste dal d.P.R. 309/1990 – qualsiasi forma di importazione, detenzione, commercio o lavorazione delle infiorescenze, anche semilavorate, essiccate o triturate, nonché dei prodotti che le contengono (estratti, resine, oli).
Con una sola eccezione: la lavorazione delle infiorescenze per la produzione agricola di semi, finalità inserita in extremis dal legislatore. Ma si tratta, come rilevato da più voci tecniche, di un’eccezione di fatto impraticabile: per ottenere i semi è infatti necessario maneggiare le infiorescenze, che nel frattempo restano vietate. Una contraddizione che rischia di paralizzare ogni attività imprenditoriale lecita.
Le criticità costituzionali e unionali
A destare perplessità non è solo il profilo tecnico-operativo della norma, in sostanza l’incompetenza scientifica di chi l’ha scritta, ma la sua compatibilità con principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dell’Unione europea.
In primis, il principio di affidamento legittimo (artt. 2 e 3 Cost.), che protegge le posizioni consolidate dei privati. È legittimo che uno Stato – che ha promosso per anni un settore economico – ne vieti improvvisamente l’attività cardine, senza alcuna transizione o meccanismo compensativo? La risposta, almeno in sede costituzionale, potrebbe non essere affermativa.
Violazione del principio di affidamento del Divieto della Canapa
L’attività era da anni lecita e incentivata, anche da politiche UE. Il cambiamento repentino e senza regime transitorio mina la fiducia degli operatori. Secondo la Corte Cost. n. 170/2013, i privati devono poter confidare nella stabilità normativa, specie in settori regolati.
Sarebbe leso, anzitutto, il principio di affidamento del privato (“specie se maturato con il consolidamento di situazioni sostanziali”: così Corte cost. n. 170 del 2013), la cui copertura costituzionale è garantita dagli artt. 2 e 3 Cost.381 e che – come sintetizzato un costituzionalista in sede di audizione – “impedisce al legislatore di cambiare idea, se non in maniera ragionevole”382 (cfr. altresì Corte cost. n. 236 del 2009); ragionevolezza che sarebbe stata traducibile, se del caso, accompagnando la nuova disciplina proibizionista con meccanismi compensativi e/o di riconversione delle attività agro-industriali legate alle infiorescenze concedendo, quindi, un regime transitorio “molto ampio”383; regime che, peraltro, nella specie, non “sarebbe neppure sufficiente” alla luce della (prevalente) disciplina unionale che consente (ed anzi incentiva in materia di politica agricola) la coltivazione384 e la vendita nello spazio UE degli stessi prodotti vietati dal legislatore interno, con conseguente esposizione del nostro Paese alla “procedura di infrazione e alle sanzioni ex artt. 258 e 260 del trattato”
Violazione dell’art. 41 Cost. (iniziativa economica)
Il divieto colpisce duramente un settore che in Italia valeva 2 miliardi di euro e 20.000 posti di lavoro. Il blocco della filiera delle infiorescenze, base del mercato del CBD legale, appare antieconomico e sproporzionato.
Per le stesse ragioni, l’improvviso divieto della raccolta delle infiorescenze di una coltura agricola autorizzata per anni, impattando su un mercato persino incentivato dalla Ue, violerebbe il principio di libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost., provocando gravi danni economici agli imprenditori e agli operatori economici coinvolti
Violazione del principio di offensività
Le infiorescenze non hanno effetti psicotropi se il THC è < 0,2-0,6% (come stabilito dalla stessa legge 242/2016). Il legislatore presume ex lege una pericolosità “astratta” e generalizzata, senza base scientifica, in contrasto con la Corte Cost. n. 46/2024 e la Giurisprudenza CEDU e Corte di Giustizia UE
Inoltre si deve considerare il principio di ragionevolezza e proporzionalità (art. 3 Cost.). Nessuno studio scientifico condiviso – almeno secondo i dati ufficiali disponibili – ha dimostrato che i prodotti a base di infiorescenze di canapa industriale, con tenore di THC inferiore allo 0,2%, provochino effetti psicotropi. Punire condotte su base presuntiva – trattandosi in questo caso di un reato di pericolo astratto – senza verifica dell’offensività concreta, potrebbe configurare un vulnus al principio di offensività.
In questo immutato quadro d’insieme, la disciplina restrittiva di nuova introduzione, siccome penalmente presidiata, potrebbe porsi in contrasto, oltreché che con il principio di determinatezza della legge penale “cioè con la componente del principio di legalità che vieta l’incriminazione di fatti che non siano suscettibili di essere accertati e provati nel processo”395, soprattutto con quello di offensività (in astratto) nella misura in cui le evidenze scientifiche dimostrano l’assenza di effetti droganti quando il principio attivo della cannabis si collochi al di sotto delle percentuali di THC indicate dall’art. 4 legge 242 del 2016 che, in effetti, sono sempre servite a valutare, in via generale e astratta, la liceità della coltivazione industriale della canapa (“nella sua interezza”: v. postea) da parte dell’agricoltore che “pur impiegando qualità consentite, nell’ambito della filiera agroalimentare delineata dalla novella del 2016, coltivi canapa che, nel corso del ciclo produttivo, risulti contenere, nella struttura, una percentuale di THC compresa tra lo 0,2 per cento e lo 0,6 per cento, ovvero superiore a tale limite massimo” (così Sez. U, n. 30475 del 30/05/2019, Castignani, in motiv. § 5.2)
Il problema non riguarderebbe – si badi – la rilevanza penale della commercializzazione al pubblico di derivati della coltivazione lecita di canapa (questione ampiamente approfondita giustappunto da Sez. U Castignani), né l’esistenza di indici rivelatori della finalità di commercializzazione del prodotto per usi diversi da quelli consentiti (su cui v. Sez. 4, n. 16155 del 17/03/2021, Currenti, Rv. 281150-01) quanto, in radice, il sopraggiunto divieto – penalmente sanzionato in termini di reato di pericolo astratto o presunto396 – di coltivazione agroindustriale di infiorescenze della canapa che il legislatore all’art. 18, ha (ri)qualificanto ex abrupto condotta (astrattamente) pericolosa punibile ai sensi del d.P.R. n. 309 del 1990 sulla base di una presunzione assoluta di dannosità per lo stato psico-fisico del soggetto assuntore e, in termini ancor più distanti, per «l’incolumità pubblica ovvero la sicurezza stradale», qui assunti quali beni giuridici di particolare rilievo.
Infine, c’è il profilo unionale: la direttiva 2002/53/CE e la giurisprudenza della Corte di Giustizia riconoscono piena legittimità alla coltivazione e commercializzazione in UE di varietà di canapa con basso THC. Vietarle in Italia
I princi Internazionali che guidano il Diritto
La normativa UE, infatti, (Dir. 2002/53/CE) autorizza la coltivazione e commercializzazione della canapa < 0,2% THC. Il divieto italiano, dunque, rischia di violare la libertà di circolazione dei beni (artt. 34-36 TFUE). Ponendo il nostro ordinamento a rischio di procedura di infrazione ai sensi degli artt. 258 e 260 TFUE.
In sintesi, a livello europeo, sul piano della regolamentazione di vari settori merceologici, la canapa è oggetto di normale attività di coltivazione e i prodotti ottenuti dalla stessa circolano liberamente all’interno dell’Unione, in base al superiore principio di libera produzione e commercializzazione di beni e servizi (artt. 36 e 36 TFUE) al quale si ricollega l’incompatibilità con il diritto unionale di divieti concernenti sostanze per le quali manchino comprovati rischi per la salute410 (su cui v. CGUE 4/10/2024, causa C-793/22, Biohemp411). Mette conto segnalare che la Corte di giustizia, nel noto caso Kanavape (CGUE 19/11/2020, causa C-663/18, B.S., C.A) nell’ambito di domanda di pronuncia pregiudiziale relativa alla messa in commercio, in Francia, da parte della suddetta azienda di una sigaretta elettronica il cui liquido conteneva il cannabidiolo (CDB) estraibile dalla canapa, ha statuito che gli “art. 34 e 36 TFUE devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che vieta la commercializzazione del CBD legalmente prodotto in un altro Stato membro, qualora sia estratto dalla pianta di Cannabis sativa nella sua interezza e non soltanto dalle sue fibre e dai suoi semi, a meno che tale normativa sia idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo della tutela della salute pubblica e non ecceda quanto necessario per il suo raggiungimento” (punto 96). Ma eventuali provvedimenti restrittivi a tutela della salute pubblica devono basarsi su “dati scientifici disponibili” e non su “considerazioni puramente ipotetiche”. Per la Corte di Lussemburgo, la decisione di vietare la commercializzazione, “la quale costituisce, l’ostacolo più restrittivo agli scambi aventi ad oggetto prodotti legalmente fabbricati e commercializzati in altri Stati membri, può essere adottata soltanto qualora l’asserito rischio reale per la salute pubblica risulti sufficientemente dimostrato in base ai dati scientifici più recenti disponibili al momento dell’adozione di siffatta decisione” (punto 88)
In questa precisa ricostruzione del massimario, inoltre, vengono ricordate le sentenze “gemelle” del T.A.R. Lazio, Sezione V, con le sentenze n. 2613 e 2616 del 14 febbraio 2023.
Questi provvedimenti, fondati su un’accurata interpretazione della disciplina europea e dei principi di precauzione e proporzionalità, hanno annullato il decreto ministeriale n. 29551 del 21 gennaio 2022, che – in analogia con alcune disposizioni legislative successive – limitava l’uso delle parti della pianta di canapa a fini erboristici solo ai semi, escludendo foglie, infiorescenze, germogli e radici.
Il T.A.R., dopo un’attenta ricostruzione normativa e accogliendo il parere dell’organo amministrativo francese sulla legittimità di analoghi divieti, ha ribadito un principio chiave di diritto europeo: la possibilità di coltivare liberamente la canapa non dipende dalle singole parti della pianta, bensì dalla tipologia della pianta stessa e dal rispetto del limite di THC stabilito dalla normativa primaria.
Di conseguenza, la restrizione nazionale che consentiva solo l’utilizzo di fibre e semi si è rivelata in contrasto con gli articoli 34 e 36 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), i quali vietano limitazioni ingiustificate alla libera circolazione delle merci. La Corte amministrativa ha quindi sottolineato che ogni limitazione all’industrializzazione e commercializzazione delle diverse parti della canapa può essere ammessa solo se strettamente necessaria a tutelare la salute pubblica, e solo nella misura proporzionata a tale fine.
Questa sentenza rappresenta un fondamentale richiamo alla coerenza tra normativa nazionale e principi comunitari, confermando che la regolamentazione della canapa deve fondarsi su evidenze scientifiche rigorose e su un bilanciamento equilibrato tra tutela della salute e libertà economiche.
La legge che anticipa il processo
In questo contesto, il richiamo fatto nel Massimario del CSM a un “contenuto interamente novellistico” e “auto-giustificato” acquista un significato inquietante. La legge, anziché lasciare spazio al dibattito tecnico, detta in anticipo la lettura penale delle condotte, trasformando ciò che era lecito in reato senza riflessione, né filtro. Ed è proprio questo il punto: non è cambiata la sostanza della pianta, ma lo sguardo del legislatore.
Un cambiamento che – per usare le parole di un costituzionalista intervenuto in audizione – “impedisce al legislatore di cambiare idea, se non in maniera ragionevole”.
Prova della liceità della coltivazione per fini di produzione di semi
Gli agricoltori dovranno dimostrare la finalità lecita tramite documentazione contrattuale. In assenza di prova, la detenzione di infiorescenze diventa di fatto penalmente rilevante. Quindi, si rischia una presunzione di colpevolezza, in contrasto con l’art. 27 Cost.
L’art. 18 sembra essere l’espressione di una svolta proibizionista che si discosta dalla logica originaria della legge 242/2016, volta a distinguere tra canapa industriale e sostanze stupefacenti.
Adotta una presunzione assoluta di pericolosità delle infiorescenze, senza verifica analitica del contenuto di THC. Non tiene conto del principio di proporzionalità e delle evidenze scientifiche sul CBD. Rischia di bloccare un intero comparto agricolo-industriale, creando effetti sproporzionati rispetto allo scopo perseguito (la sicurezza pubblica).
La disciplina introdotta dall’art. 18 si presenta come un punto di svolta per il settore della canapa industriale. Ma più ancora che un punto, sembra essere una cesura, un’imposizione. Essa colpisce non tanto il consumo quanto la filiera, non tanto lo spaccio quanto l’agricoltura, e lo fa sotto la minaccia del diritto penale.
In un tempo in cui si invoca sempre più spesso il diritto “mite”, questa riforma ha invece il sapore della legge severa, apodittica, senza compromessi. Ma nella sua severità rischia di perdere il contatto con la realtà economica, agricola e giuridica.
E così, tra i campi seminati di canapa e i banchi dei tribunali, il confine tra fiore e reato si fa sempre più sottile. Forse troppo.