L’abuso d’ufficio e la Corte costituzionale: la sentenza n. 95 del 2025

Con la sentenza n. 95 del 2025, la Corte costituzionale si è pronunciata su una questione delicatissima, destinata a incidere profondamente sul rapporto tra diritto penale, amministrazione pubblica e ordinamento costituzionale: la legittimità dell’abrogazione dell’art. 323 del codice penale, vale a dire del reato di abuso d’ufficio, prevista dalla legge n. 114 del 2024.

La Corte fa il Proprio dovere e resta nei limiti della propria competenza, ma resta una domanda che il cittadino comune si pone: Come è possibile che il legislatore sia così illuminato e garantista con i reati dei colletti bianchi e dei politici e così panpenalista* con tutte le altre fattispecie criminose. Arrivando a punire con il diritto penale condotte, praticamente, prive di impatto sociale o di un reale danno alla collettività? Una domanda retorica; forse.

* “Panpenalista” deriva da pan- (tutto) e penalista, e viene utilizzato per descrivere una tendenza culturale, politica o normativa a ricorrere sistematicamente al diritto penale per affrontare qualsiasi problema sociale, economico o amministrativo.

La scelta del legislatore di eliminare questa figura di reato ha suscitato un ampio dibattito sia nella dottrina che tra gli operatori del diritto, fino a culminare nella proposizione di quattordici ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale, provenienti da giudici di merito e dalla Corte di cassazione.

Sentenza in Calce

Tutte sollevavano dubbi di legittimità costituzionale e sollecitavano un intervento chiarificatore. In particolare, si chiedeva se tale abrogazione fosse compatibile con il dettato della Costituzione e con gli obblighi internazionali, in special modo quelli derivanti dalla Convenzione ONU contro la corruzione (UNCAC), ratificata dall’Italia nel 2009.

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 Con quattordici diverse ordinanze – tredici emesse da giudici di merito (iscritte ai numeri 201, 222, 232 e 233 reg. ord. del 2024 e ai numeri 4, 5, 8, 10, 17, 18, 20, 25 e 33 reg. ord. del 2025) e una dalla Corte di cassazione (iscritta al n. 50 del reg. ord. del 2025) – vengono sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera b), della legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare), che ha abrogato l’art. 323 del codice penale, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione (ordinanze iscritte ai numeri 201, 222, 232, 233 reg. ord. del 2024 e ai numeri 5, 8, 10, 18, 33 e 50 reg. ord. del 2025) o solo in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. (ordinanze iscritte ai numeri 4, 17, 20 e 25 del reg. ord. 2025), in relazione agli obblighi discendenti complessivamente dagli artt. 1, 5, 7, paragrafo 4, 19 e 65 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003, ratificata e resa esecutiva con la legge 3 agosto 2009, n. 116 (di seguito indicata anche come: “Convenzione di Mérida”, “Convenzione”, o “UNCAC”).

Alcuni rimettenti dubitano altresì della legittimità costituzionale della disposizione abrogatrice in riferimento agli artt. 3 Cost. (ordinanza iscritte ai numeri 233 reg. ord. del 2024 e 33 reg. ord. del 2025) e 97 Cost. (ordinanza iscritte ai numeri 222 e 233 reg. ord. del 2024 e ai numeri 4, 8 e 33 reg. ord. del 2025).

La Corte a seguito di ampia analisi ha escluso ogni profilo di illegittimità: non risultano violate norme costituzionali né obblighi sovranazionali vincolanti. Tuttavia, la motivazione della decisione, articolata e densa di riferimenti sistematici, rappresenta un’occasione preziosa di studio per comprendere i confini attuali del diritto penale e le dinamiche tra Corte, Parlamento e diritto internazionale.


il reato di abuso d’ufficio e la sua abrogazione

L’art. 323 c.p. sanzionava i pubblici ufficiali che, violando norme di legge o regolamento, procuravano a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o arrecavano ad altri un danno ingiusto. Si trattava di una norma da sempre controversa, accusata di ambiguità e di favorire un uso strumentale del processo penale. Numerose riforme ne avevano ristretto progressivamente l’ambito applicativo, ma nel 2024 il legislatore ha deciso per la sua abrogazione integrale, con la legge n. 114.

Secondo i giudici rimettenti, tale intervento normativo comprometterebbe la coerenza del sistema penale e dei principi costituzionali, determinando:

  • una violazione dell’art. 3 Cost., in quanto introdurrebbe irragionevoli disparità di trattamento tra condotte analoghe;
  • una violazione dell’art. 97 Cost., per l’indebolimento della tutela dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione pubblica;
  • una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli obblighi derivanti dalla Convenzione UNCAC, che prevede misure specifiche contro la corruzione e l’abuso di potere.

A queste censure si aggiungeva un’ulteriore questione, centrale nella giurisprudenza costituzionale: il possibile effetto in malam partem delle eventuali decisioni della Corte.


Il principio di legalità e il limite dell’intervento in malam partem

Uno dei capisaldi dell’ordinamento penale è l’art. 25, comma 2, Cost., secondo cui nulla poena sine lege: solo la legge può stabilire reati e pene. Da questo principio discende che la Corte costituzionale non può, tramite una propria sentenza, aggravare la posizione di un imputato, ripristinando una fattispecie incriminatrice abrogata dal legislatore. Quindi, se degli imputati sono stati prosciolti, per esempio, grazie all’abrogazione del reato di abuso di ufficio voluto dal legislatore, la Corte Costituzionale non può tornare indietro causando la condanna degli stessi imputati.

In altre parole, la Corte non può espandere l’area della punibilità, neppure se la nuova disciplina appare meno efficace nella tutela di interessi costituzionalmente rilevanti. Tale limite trova fondamento nella riserva assoluta di legge in materia penale e nel principio di separazione dei poteri.

Infatti i Tribunali che hanno rimandato la decisione alla Corte in sostanza auspicavano la dichiarazione dell’illegittimità costituzionale della disposizione abrogatrice. Conseguentemente il ripristino dell’incriminazione abrogata. Con un effetto, dunque, (ri)espansivo dell’area di rilevanza penale rispetto alla scelta riduttiva compiuta dal legislatore del 2024.

“Non può costituire oggetto di sindacato costituzionale l’estensione della punibilità a fatti non più previsti dalla legge come reato” (v. sentenza 447/1998).

«l’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost.». Tale principio, «rimettendo al “soggetto-Parlamento” (sentenza n. 5 del 2014), che incarna la rappresentanza politica della Nazione (sentenza n. 394 del 2006), le scelte di politica criminale (con i relativi delicati bilanciamenti di diritti e interessi contrapposti), impedisce alla Corte, sia di creare nuove fattispecie o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti, comunque sia, alla punibilità» (sentenza n. 8 del 2022, punto 4 del Considerato in diritto; nello stesso senso, più di recente, sentenza n. 84 del 2024, punto 2.2.1. del Considerato in diritto e ordinanza n. 29 del 2022, nonché in precedenza, ex plurimis, sentenze n. 17 del 2021, punto 5 del Considerato in diritto; n. 37 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto; n. 46 del 2014, punto 3 del Considerato in diritto; n. 324 del 2008, punto 5 del Considerato in diritto; n. 394 del 2006 punto 6.1. del Considerato in diritto; 161 del 2004, punto 7.1. del Considerato in diritto).


Le norme penali di favore: un’eccezione non applicabile al caso

Un tentativo argomentativo avanzato da alcuni rimettenti si fondava sulla categoria delle norme penali di favore, che possono essere sottoposte a controllo anche se la relativa decisione comporta effetti peggiorativi per l’imputato. Secondo questa impostazione, la legge abrogativa del 2024 avrebbe favorito ingiustificatamente determinati soggetti, sottraendoli a responsabilità penale.

Laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006)» (sentenza n. 37 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto).

Tuttavia, la Corte ha chiarito che tale categoria riguarda solo le norme che introducono eccezioni irragionevoli rispetto a disposizioni generali ancora in vigore. Nel caso in esame, invece, la norma incriminatrice è stata completamente eliminata, dunque non si tratta di una deroga ma di una vera e propria scelta di politica criminale, che rientra nella discrezionalità del legislatore.

“Non si può invocare la categoria della norma penale di favore per chiedere il ripristino di una norma ormai non più vigente.”


Gli obblighi internazionali: art. 117 Cost. e la Convenzione di Merida

Più articolata si è rivelata l’analisi delle questioni relative all’art. 117, primo comma, Cost., che impone il rispetto degli obblighi internazionali. I rimettenti sostenevano che la soppressione dell’art. 323 c.p. avrebbe violato precisi obblighi assunti dall’Italia con la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (UNCAC), la cui finalità è rafforzare gli strumenti di prevenzione e repressione della corruzione nella pubblica amministrazione.

I rimettenti, nel loro complesso, riconoscono che l’unica disposizione della Convenzione specificamente dedicata all’abuso d’ufficio («Abuse of functions», nella versione ufficiale inglese) è l’art. 19; e giustamente osservano che tale disposizione si limita a statuire che gli Stati parte hanno l’obbligo di considerare («shall consider adopting») la criminalizzazione di condotte in larga misura corrispondenti a quelle coperte dall’abrogata disposizione di cui all’art. 323 cod. pen.

In particolare, venivano richiamati:

  • Art. 19 UNCAC, sull’abuso di funzioni, che invita gli Stati ad adottare misure di criminalizzazione. Infatti, dice la corte che l’art. 19 configura semplicemente – nel linguaggio della Legislative guide alla Convenzione, elaborata dall’United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC) – una «non-mandatory offence»: e cioè una condotta la cui possibile criminalizzazione gli Stati hanno il mero obbligo (procedurale) di «considerare».
  • Art. 7, par. 4, sulla necessità di mantenere sistemi efficaci contro il conflitto di interessi;
  • Art. 65, che impone l’attuazione completa degli obblighi convenzionali.

La posizione della Corte: nessun obbligo vincolante all’incriminazione

Dopo un’attenta analisi dei testi normativi e dei travaux préparatoires, la Corte ha escluso che la Convenzione UNCAC imponga agli Stati l’obbligo di mantenere una fattispecie penale di abuso d’ufficio. In particolare:

  • l’art. 19 prevede solo un obbligo di valutazione (shall consider adopting), e non un obbligo giuridico sostanziale di criminalizzazione;
  • spetta al legislatore valutare se la punibilità penale sia lo strumento più idoneo a tutelare l’integrità dell’amministrazione;
  • l’assenza di un obbligo preciso lascia margini ampi alla discrezionalità statale.

In sostanza, la Corte ha ritenuto che l’abrogazione dell’art. 323 c.p. non comporti violazioni della Convenzione di Merida, in quanto non è preclusa agli Stati la facoltà di adottare soluzioni alternative alla repressione penale, purché efficaci.


La discrezionalità legislativa come presidio dell’equilibrio costituzionale

Una delle affermazioni più rilevanti della sentenza riguarda il principio della discrezionalità legislativa in materia penale. La Corte ha sottolineato che non esiste un obbligo costituzionale di punire penalmente ogni condotta lesiva dell’imparzialità della P.A.: possono esistere strumenti alternativi, quali misure disciplinari, sanzioni amministrative, responsabilità contabile e azioni civili.

“Il diritto penale resta extrema ratio: non ogni condotta criticabile dev’essere punita penalmente.”

Tale impostazione si inserisce in una visione moderna e garantista del diritto penale, che mira a contenere l’area della repressione penale entro i limiti strettamente necessari, lasciando spazio a forme più flessibili di tutela degli interessi pubblici.

Breve riflessione: eppure questo garantismo il nostro legislatore lo ha riservato solo ai colletti bianchi, ai colleghi politici e agli amministratori pubblici. Nel resto del “lavoro” legislativo si è visto tutt’altro comportamento un panpenalismo sfrenato e illogico per condotto anche senza lesività. Un bisogno irrefrenabile di punire qualsiasi cosa, ma un garantismo illuminato sui reati di evasione fiscale e riguardanti i colletti bianchi. Doppio standard.

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Un equilibrio tra legalità, sovranità e responsabilità politica

La sentenza n. 95/2025 rappresenta un momento di sintesi e chiarificazione. Da un lato, riafferma i limiti costituzionali del potere giurisdizionale, che non può sostituirsi al legislatore nella scelta delle politiche penali. Dall’altro, lascia aperta la porta a nuove scelte normative, se e quando il Parlamento riterrà opportuno reinserire una fattispecie incriminatrice specifica per il comportamento abusivo del pubblico ufficiale.

La Corte, ancora una volta, ha interpretato il proprio ruolo di custode dell’equilibrio costituzionale, evitando derive giurisprudenziali e rispettando la sfera di autonomia democratica del legislatore.

Il dibattito sull’efficacia della lotta alla corruzione non si chiude qui: continua nei banchi parla…, no in parlamento no, ma nei convegni giuridici, nei tribunali e nelle aule universitarie dove si formano i giuristi di domani.

La Corte, nella sentenza 95/2025, non entra nel merito politico-criminale della scelta di abrogare il reato. Però ribadisce che non può intervenire per “riequilibrare” il sistema se la legge ha deciso di non punire più una condotta. È un modo per dire: “la legge è ingiusta? Tocca al Parlamento correggerla, non a noi”.

La sentenza