Il diritto penale è uno strumento tecnico o uno strumento simbolico? Se è il primo, allora deve rispondere a logiche stabili e verificabili. Se è il secondo, allora tutto è possibile – anche l’inversione delle premesse da un decreto all’altro.
Confrontando le motivazione e le teorie dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio con quelle che hanno accompagnato il cd. Decreto Sicurezza sembra denotarsi una profonda incoerenza sistematica del legislatore, oppure un doppio standard ideologico.
C’era una volta il reato di abuso d’ufficio. Viveva tranquillo nel codice penale dal 1930, temuto ma raramente condannato, un po’ come un professore burbero che interroga solo a giugno. E poi, puff: scomparso. Era il 9 agosto 2024, e il legislatore italiano decise che l’articolo 323 del codice penale aveva fatto il suo tempo. “Troppo vago, troppo difficile da applicare, troppo inutile”, si legge nella relazione illustrativa che accompagna la legge n. 114/2024. Una decisione ispirata a esigenze di semplificazione normativa e chiarezza sistematica. Ma davvero la vaghezza è un criterio sufficiente per l’estinzione di un reato, o è il sintomo di un disallineamento più profondo tra legge scritta e prassi applicativa?
Fin qui, una scelta che si inserisce in una visione del diritto penale come extrema ratio. Meno sanzione penale, più responsabilità contabile e amministrativa. Meno magistratura requirente, più Corte dei conti (che poi anche la Corte dei Conti successivamente ha avuto un bel taglione). Il messaggio istituzionale sembrerebbe limpido: il diritto penale non deve supplire ad altri strumenti di controllo. E tuttavia, ad aprile 2025, lo stesso Governo presenta il cosiddetto “Decreto Sicurezza” (d.l. n. 48/2025, convertito nella legge n. 80/2025), che si muove in direzione diametralmente opposta: un’espansione delle fattispecie penali, un rafforzamento dei poteri di prevenzione, una crescita della discrezionalità amministrativa. Un doppio Standard quasi incomprensibile.
Legge n. 114/2024 (abrogazione dell’abuso d’ufficio): motivazioni del Governo
La legge 9 agosto 2024, n. 114 – nota come “legge Nordio” – ha abrogato l’art. 323 c.p. (abuso d’ufficio). Nel testo normativo finale (art. 1, lett. b)) si legge infatti esplicitamente che «l’articolo 323 è abrogato», riflettendo la scelta di eliminare il reato di abuso d’ufficio dal codice penale. Il governo ha motivato l’intervento come finalizzato a razionalizzare il sistema penale. In particolare, la proposta di legge sottolineava l’“inefficacia” pratica della fattispecie di abuso d’ufficio e le difficoltà interpretative riscontrate in giurisprudenza.
Il testo della norma sottolinea la necessità di evitare la “sovrapposizione” con altri reati e di «ridurre l’ambito applicativo» delle norme penali in tema di pubblici ufficiali, sulla base di valutazioni di (presunta) scarsa produttività sanzionatoria di tale fattispecie.
In sede di approvazione, il Governo giustificò l’abolizione ponendo l’accento sul basso numero di condanne effettivamente pronunciate per il reato di abuso d’ufficio (un calcolo completamente errato), ritenendolo praticamente obsoleto e causa di contenzioso. La «ragione di volere abrogare l’art. 323 c.p. risiederebbe nello squilibrio intercorrente tra il ridotto numero delle condanne e l’ampio impiego di risorse investigativo-processuali» che tale reato comporta. In altre parole, la rel. illustrativa del Governo avrebbe puntato a privilegiarne l’efficacia complessiva del sistema penale, in coerenza con la linea “anti-carceraria” che si voleva intraprendere.
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Decreto-legge n. 48/2025 (“Decreto Sicurezza”): motivazioni del Governo
Il “Decreto Sicurezza” del 11 aprile 2025 (d.l. n. 48/2025) – convertito nella legge n. 80/2025 – introduce numerose nuove misure repressive in materia di ordine pubblico, antiterrorismo, polizia, carcere, immigrazione e droghe. La relazione illustrativa del Governo allegata al disegno di legge di conversione evidenzia chiaramente i fini della riforma: «potenziare le attività di prevenzione e contrasto del terrorismo e della criminalità organizzata, nonché di adottare misure in materia di sicurezza urbana e controlli di polizia». Sembra tutto bello e normale vero? Nel merito, le modifiche al codice penale vengono giustificate come rispondenti a concreti fabbisogni operativi.
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Confronto e coerenza sistematica
Dall’analisi delle due relazioni emerge una contrapposizione netta: da un lato l’abrogazione dell’abuso d’ufficio è giustificata con un approccio garantista/efficienziale, che smantella quella fattispecie ritenuta di scarso uso pratico; dall’altro, il “Decreto Sicurezza” innalza le misure repressive contro il terrorismo e la microcriminalità, introduce nuovi reati di scarsissimo impatto sociale e al contempo amplia i poteri degli organi dello stato, diminuendo, anche, il controllo giudiziario sugli stessi.
Sul piano giuridico non vi è un’irregolarità in senso formale: legislativamente si può abrogare un reato e contemporaneamente introdurne di nuovi. Tuttavia si osserva una potenziale incoerenza sistematica. Con l’abrogazione dell’art. 323, lo Stato rinuncia a perseguire certe forme di corruzione interna (abuso di potere finalizzato al vantaggio); ma nello stesso tempo rafforza l’apparato repressivo per casi di ordine pubblico e sicurezza urbana. Gli esperti evidenziano che il reato di abuso d’ufficio colpiva situazioni in cui il pubblico ufficiale utilizza la legge per fini privati. Era spesso un reato sentinella, cioè da quelle indagini si risaliva a corruzione e infiltrazioni. Abolendolo (in assenza di reati alternativi strettamente sovrapponibili per tutte le condotte), si crea una “zona grigia” potenzialmente non sanzionabile.
Nel frattempo, però, si introduce o inasprisce repressioni penali (ad es. terrorismo ideologico, occupazione di stabili, etc.) nel “Decreto Sicurezza”. Dal punto di vista sistematico, risulta contraddittorio che una politica legislativa tolga strumenti penali contro la corruzione in certe ipotesi, pur aumentando la risposta punitiva in altri ambiti.
In sintesi, le due relazioni parlamentari ufficiali espongono visioni opposte: da un lato una politica di deregolazione penale tesa a ridurre la fattispecie incriminatrici (abuso d’ufficio), dall’altro una politica di rafforzamento dei reati in materia di sicurezza. Le motivazioni tecniche espresse – risparmio di risorse giudiziarie da un lato, urgenza di tutela della sicurezza dall’altro – risultano dunque di segno contrario, configurando un’incoerenza di indirizzo tra i due interventi normativi. Un’incoerenza ideologica? Oppure un doppio standard tra cittadino e pubblico ufficiale?
La relazione illustrativa al decreto sicurezza è eloquente: in un contesto globale segnato da minacce ibride e rischi asimmetrici, lo Stato deve dotarsi di strumenti capaci di anticipare il pericolo.
Si criminalizza così non solo il gesto, ma la sua preparazione potenziale. La sola detenzione di materiale informatico considerato idoneo a finalità terroristiche diventa reato, così come la sola detenzione di una pianta di canapa. Una protesta pacifica diventa reato e tanto altro. Una logica preventiva radicale. E allora: se per l’abuso d’ufficio bastava l’incertezza interpretativa per determinare la sua soppressione, la medesima incertezza non dovrebbe suscitare qualche perplessità anche per nuove fattispecie basate su intenzioni presunte?
Nel caso dell’abrogazione dell’art. 323, il Governo ha insistito su dati statistici (rivelati errati): poche condanne, molte archiviazioni, numeri sproporzionati rispetto all’apparato investigativo coinvolto. La legge penale, si sostiene, non può servire a “simbolizzare” un disvalore sociale se non è effettivamente in grado di operare sanzioni. Ma nel Decreto Sicurezza, la logica quantitativa sembra accantonata. Si interviene non perché manchino le condanne, ma perché esistono minacce ipotetiche. Il diritto penale si fa strumento di gestione del rischio. Il principio di offensività lascia spazio a quello di pericolosità astratta. Non è lecito chiedersi se l’equilibrio tra garanzia e sicurezza possa davvero reggersi su basi tanto asimmetriche?
Il contrasto tra le due relazioni illustrative è illuminante. Nel primo caso, il legislatore sottolinea l’opportunità di “ridurre l’area del penalmente rilevante” in nome della determinatezza e del principio di legalità. Nel secondo, si rivendica la necessità di introdurre nuovi reati proprio dove l’offensività è meno tangibile, ma più diffusa nella percezione (errata) collettiva. Due approcci radicalmente divergenti. Quale dei due costituisce l’asse portante della politica criminale contemporanea?
Questa doppia traiettoria non è solo teorica. Ha effetti pratici rilevanti: da un lato, si riduce il controllo penale sulla pubblica amministrazione; dall’altro, si estende su comportamenti che precedono di molto la realizzazione di un danno. Il garantismo applicato all’apparato pubblico sembra convivere con un’espansione repressiva rivolta al cittadino comune. Si tratta di una evoluzione coerente del sistema, o di una segmentazione del diritto penale a seconda del soggetto cui si applica?
È evidente che ogni intervento normativo nasce da esigenze politiche e sociali contingenti. Tuttavia, il diritto penale – in quanto disciplina di ultima istanza – dovrebbe tendere alla coerenza sistemica e alla proporzionalità degli strumenti rispetto ai fini. L’oscillazione tra minimalismo e massimalismo crea invece un quadro instabile, in cui l’interpretazione della legalità varia a seconda dell’oggetto (funzione pubblica o sicurezza) e del soggetto (funzionario o cittadino).
In un tale scenario, non stupisce che l’opinione pubblica percepisca il diritto penale come un campo di battaglia ideologico piuttosto che come garanzia costituzionale. Ma siamo certi che il diritto penale debba funzionare così, a ondate emozionali alternate?
Naturalmente, le scelte di politica criminale spettano al Parlamento (In Teoria, in Pratica è sempre e solo il Governo senza interpellare il Parlamento ed avvelendosi dei Decreti Legge. una prassi distopica), e la valutazione della loro legittimità compete alla Corte costituzionale e successivamente ai Tribunali nei casi pratici. Ma il giurista ha il compito – anche scientifico – di interrogarsi su ciò che accade, e su come accade. L’espansione e contrazione del sistema penale devono fondarsi su criteri razionali, non solo su esigenze reattive. È possibile conciliare esigenze di sicurezza e principio di legalità senza sacrificare coerenza e prevedibilità normativa?
Forse non è questione di essere garantisti o giustizialisti, severi o indulgenti. Forse è solo questione di metodo. E di una domanda, apparentemente semplice: il diritto penale è uno strumento tecnico o uno strumento simbolico? Se è il primo, allora deve rispondere a logiche stabili e verificabili. Se è il secondo, allora tutto è possibile – anche l’inversione delle premesse da un decreto all’altro.