Il ritorno del reato di blocco stradale: tra esigenze di ordine pubblico e diritti costituzionali

Nella Relazione n. 33/2025 dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo – Servizio Penale della Corte Suprema di Cassazione, tra le tante novità normative che riempiranno i Tribunali e faranno esplodere i ricorsi alla Corte Costituzionale, si affronta anche una delle modifiche normative più controverse introdotte negli ultimi anni: la nuova configurazione del reato di blocco stradale e ferroviario, contenuta nell’art. 14 della legge di riforma, che interviene profondamente sull’art. 1-bis del D.lgs. 22 gennaio 1948, n. 66 (cd. Decreto Scelba).

Questa novella legislativa rappresenta il ritorno al penalismo per una condotta che, fino a poco tempo fa, era relegata alla sfera degli illeciti amministrativi: impedire la libera circolazione su strada, ostruendo la sede stradale con il proprio corpo.

L’art. 14 reca «[m]odifiche all’articolo 1-bis del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66, relativo all’impedimento della libera circolazione su strada», riformulandolo nei seguenti termini: «Chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata, ostruendo la stessa con il proprio corpo, è punito con la reclusione fino a un mese o la multa fino a 300 euro. La pena è della reclusione da sei mesi a due anni se il fatto è commesso da più persone riunite».

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La parabola normativa del blocco stradale

Il blocco della circolazione ha avuto nel tempo un trattamento giuridico altalenante. Originariamente, l’art. 1 del D.lgs. n. 66/1948 sanzionava penalmente chi ostacolava la circolazione mediante oggetti o altri congegni. Con il D.lgs. n. 507/1999, tale condotta venne in parte depenalizzata attraverso l’introduzione dell’art. 1-bis, che trasformava in illecito amministrativo l’impedimento alla circolazione su strade ordinarie – a meno che non vi fossero oggetti abbandonati sulle ferrovie, ipotesi che rimaneva reato.

Nel 2018, il D.L. n. 113, convertito nella L. n. 132/2018, operò un’ulteriore modifica: punibilità penale per gli ostacoli materiali su strada (non il corpo), e sanzione amministrativa per chi la bloccava con il proprio corpo. Il legislatore distingueva quindi tra azioni materiali e corporee, riservando al diritto amministrativo il trattamento delle seconde.

Con la novella del 2025, la distinzione cade.

La nuova norma: ritorno al penale

L’attuale riformulazione dell’art. 1-bis del D.lgs. n. 66/1948 recita:

“Chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata, ostruendo la stessa con il proprio corpo, è punito con la reclusione fino a un mese o la multa fino a 300 euro. La pena è della reclusione da sei mesi a due anni se il fatto è commesso da più persone riunite.”

L’intenzione – come si legge nella Relazione illustrativa – è chiara: restituire rilevanza penale a condotte di disobbedienza civile e contenere le manifestazioni che bloccano la viabilità urbana e ferroviaria, spesso legate a proteste, scioperi o mobilitazioni ambientaliste.

La Cassazione osserva come, a differenza del passato, oggi anche un solo manifestante che si sdrai su una strada può incorrere in responsabilità penale, con un’aggravante se l’azione è collettiva.

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Le problematiche giuridiche del blocco stradale: offensività e diritti fondamentali

La Corte di Cassazione non si limita a descrivere il dato normativo. Al contrario, pone in evidenza problematiche di compatibilità costituzionale della nuova incriminazione. La questione centrale è la seguente: può dirsi penalmente rilevante una condotta non violenta, passiva, motivata da finalità di protesta, che potrebbe essere facilmente aggirata e che non arreca danni durevoli o pericoli concreti?

La Suprema Corte richiama il principio di offensività, cardine del diritto penale sostanziale: la punizione deve riguardare condotte realmente lesive di beni giuridici. Ne consegue che la semplice difficoltà temporanea nella circolazione, oppure una turbativa marginale, potrebbe non rientrare nell’ambito del reato. Secondo l’interpretazione della Cassazione, sarà necessario valutare in concreto la gravità e l’effettiva incidenza sulla viabilità.

Elementi strutturali della nuova fattispecie

  • Condotta materiale: impedimento della circolazione mediante il solo uso del corpo;
  • Elemento soggettivo: dolo generico, consapevolezza di ostacolare significativamente la circolazione;
  • Circostanza aggravante: se il fatto è commesso da più persone riunite (anche solo due);
  • Non applicabilità di misure cautelari: limiti edittali non permettono arresto in flagranza né misure coercitive;
  • Procedibilità: d’ufficio, con competenza del Tribunale monocratico.

Rapporti con altri reati

La nuova fattispecie sostituisce, in caso di concorso apparente, il reato di interruzione di pubblico servizio (art. 340 c.p.) per effetto della clausola di sussidiarietà contenuta in quest’ultimo. Tuttavia, resta possibile il concorso con il reato di violenza privata (art. 610 c.p.), qualora la condotta abbia carattere aggressivo o intimidatorio.

Le critiche: repressione o compressione del dissenso?

Le critiche non sono mancate, sin dalla genesi parlamentare della norma. Le audizioni e i primi commentatori hanno denunciato una compressione dei diritti costituzionalmente garantiti, in particolare:

  • art. 17 Cost. (diritto di riunione),
  • art. 21 Cost. (libertà di manifestazione del pensiero),
  • art. 40 Cost. (diritto di sciopero).

Secondo i critici, punire atti di resistenza passiva, che sono forme di dissenso pacifico, rappresenta una pericolosa torsione repressiva dello Stato di diritto. Si finisce, dicono, per colpire i deboli strumenti del conflitto sociale: cortei di lavoratori, manifestazioni studentesche, atti simbolici degli attivisti climatici.

Il rischio è che si venga a reprimere non la violenza, ma l’espressione del disagio, quel dissenso che la Costituzione tutela come elemento essenziale della democrazia.

“si incriminano indirettamente forme di protesta che, per quanto possano risultare moleste, sono sempre forme di espressione di dissenso che andrebbero affrontate sul piano del dialogo più che su quella della incriminazione”

Il diritto penale come strumento di governo del dissenso?

La riforma dell’art. 1-bis del D.lgs. n. 66/1948 riapre un confronto antico: quale deve essere il confine tra libertà e ordine pubblico? La nuova incriminazione sembra segnalare una svolta securitaria, volta a rafforzare l’autorità dello Stato, anche a costo di restringere gli spazi del dissenso.

La Corte di Cassazione, pur riconoscendo la legittimità della nuova disposizione, invita a una lettura conforme ai principi costituzionali, suggerendo che il diritto penale non può colpire manifestazioni prive di concreta offensività.

In definitiva, la partita si giocherà sul piano interpretativo e applicativo: starà alla giurisprudenza futura bilanciare le esigenze dell’ordine pubblico con la tutela delle libertà fondamentali, affinché il diritto penale non diventi strumento di governo del conflitto sociale, ma argine ragionevole a condotte realmente pericolose.

Doppio Standard

L’abrogazione del Reato di Abuso d’Ufficio

Questa norma nasce come segnale di “legge forte” contro la disobbedienza civile (al contrario di quanto si fa nei confronti dei pubblici ufficiali si veda l’abolizione dell’abuso d’ufficio), ma poggia su fondamenta fragili: tocca i diritti più protetti della nostra Costituzione. Il suo destino, con buona probabilità, sarà quello di essere ridimensionata in sede interpretativa. finirà certamente in futuro con l’essere poco applicata nei casi più simbolici. E soprattutto, prima o poi passerà al vaglio della Corte costituzionale, che dovrà decidere se una protesta silenziosa valga una pena detentiva.

Insomma, la norma potrebbe sopravvivere sulla carta, ma la sua applicazione concreta sarà, con ogni probabilità, selettiva, prudente e (forse) temporanea.

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