Ramo d’azienda dematerializzato e autonomia funzionale

Dell’invisibile ramo: autonomia funzionale e smaterializzazione dell’impresa nella giurisprudenza contemporanea

Note a margine di Cass. civ., sez. lav., sent. 16 aprile 2025, sulla configurabilità del ramo d’azienda dematerializzato ex art. 2112 c.c.


La trasformazione digitale dell’economia ha determinato una profonda revisione degli strumenti concettuali attraverso i quali il diritto del lavoro interpreta le dinamiche organizzative dell’impresa. In tale contesto, la sentenza della Corte di Cassazione del 16 aprile 2025 è utilissima per affrontare questo innovativo settore. Il passaggio da una concezione materiale dell’organizzazione aziendale a una lettura funzionale e relazionale, idonea a includere entità economiche composte da asset prevalentemente immateriali.

Questa evoluzione impone un cambiamento nell’approccio giuridico, richiedendo una comprensione più articolata dei processi produttivi moderni, spesso fondati su logiche reticolari e interdipendenze tra soggetti e tecnologie. La ridefinizione del concetto di “ramo d’azienda” si inserisce in un più ampio movimento di adattamento del diritto del lavoro alla fluidità dei modelli organizzativi contemporanei, in cui il valore è sempre più legato al capitale umano e intellettuale piuttosto che a beni materiali.

Ciò solleva interrogativi non marginali sull’interpretazione dell’art. 2112 c.c., sulla nozione di “ramo d’azienda” e, in particolare, sull’esigenza di verificare l’esistenza di un’autonomia funzionale preesistente, anche in assenza di strutture tangibili. In questo quadro, il ruolo della giurisprudenza diventa fondamentale per guidare l’evoluzione normativa attraverso letture coerenti con i mutamenti economici e sociali.

La nozione di ramo d’azienda: evoluzione normativa e giurisprudenziale

L’art. 2112 c.c., in coerenza con l’art. 1, par. 1, lett. a) della Direttiva 2001/23/CE, tutela i lavoratori coinvolti in trasferimenti d’azienda o di ramo d’azienda, subordinando l’applicabilità della disciplina alla sussistenza di un’entità economica che conservi la propria identità a seguito del trasferimento.

La giurisprudenza nazionale è consolidata nel richiedere, ai fini della qualificazione come ramo, la presenza di una “autonomia funzionale” del complesso ceduto, ossia la capacità di esercitare un’attività economica con mezzi propri, indipendentemente da integrazioni essenziali da parte del cessionario (Cass. nn. 11247/2016; 19034/2017; 22249/2021). L’autonomia funzionale, dunque, costituisce il nucleo intorno al quale ruota l’intera disciplina della cessione di ramo d’azienda.

In tale solco si inserisce anche la sentenza in commento, che esclude la natura di ramo d’azienda di un complesso di risorse umane e funzionali privo di autonomia organizzativa e gestionale. Infatti, sebbene dotato di know-how specialistico, era rimasto dipendente da asset (programmi informatici, logistica, contratti di service) non trasferiti. Tale interpretazione riflette una posizione rigorosa, volta a evitare forme elusive della normativa lavoristica, attraverso la creazione di entità fittizie non realmente in grado di sostenere un’attività produttiva indipendente.

Ramo dematerializzato e know-how collettivo: linee evolutive

L’aspetto più rilevante della decisione risiede nell’esplicita apertura, sul piano astratto, alla configurabilità di un ramo “dematerializzato”, purché dotato di una struttura funzionale idonea a soddisfare autonomamente uno scopo produttivo. Si tratta di un riconoscimento importante, coerente con l’evoluzione dell’impresa verso forme reticolari, digitalizzate e fluide.

Questa evoluzione del concetto di ramo si inserisce nella più ampia dinamica di digitalizzazione dei modelli produttivi, dove l’infrastruttura tecnologica, l’organizzazione del lavoro per progetti, la disponibilità di dati, l’interconnessione tra unità operative e la circolazione del sapere tecnico-specialistico rappresentano i nuovi elementi strutturanti dell’identità d’impresa.

Tuttavia, la Corte ribadisce la centralità della verifica concreta dell’autonomia funzionale. La mera presenza di personale qualificato e conoscenze tecniche, se non accompagnata da strumenti, asset o infrastrutture gestionali che consentano l’erogazione del servizio in maniera indipendente, non è sufficiente.

Il ramo deve essere in grado di operare “ex se” nel mercato, anche nei confronti di soggetti terzi. Ciò implica che l’autonomia debba essere non solo formale, ma effettiva e concretamente rilevabile nell’operatività del complesso organizzativo.

Hanno sottolineato nel caso in oggetto che i contratti di service dei programmi informatici e della logistica degli immobili costituivano specifici indicatori dell’assenza di autonomia e consistenza organizzativa propria in capo al complesso ceduto. Secondo la Corte il ramo d’azienda rilevante ex art. 2112 c.c. deve pur sempre rispettare la nozione di impresa e pertanto deve pur sempre avere quell’autonomia funzionale idonea a consentire lo svolgimento ex se dell’attività imprenditoriale (nella nozione data dall’art. 2082 c.c.) sul mercato, quindi anche verso terzi, e non solo verso la cedente. 

In prospettiva, questa impostazione sembra imporre al diritto positivo una riflessione sull’adeguatezza dei criteri tradizionali di individuazione del ramo, alla luce della crescente rilevanza del capitale umano e dei sistemi informativi nella produzione del valore. In particolare, sarà necessario interrogarsi se i parametri oggi utilizzati siano idonei a cogliere la specificità dei processi produttivi basati su conoscenze condivise, lavoro da remoto, interazioni digitali e infrastrutture virtuali.

La Corte ha affermato che ai fini del trasferimento di ramo d’azienda previsto dall’art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dall’art. 32 d. lgs. n. 276/2003, rappresenta elemento costitutivo della cessione l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi. Quindi di svolgere – autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario – il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente al momento della cessione. 

L’elemento costitutivo dell’autonomia funzionale va quindi letto in reciproca integrazione con il requisito della preesistenza

Ciò anche in armonia con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, secondo la quale l’impiego del termine “conservi” nell’art. 6, par. 1, commi 1 Corte di Cassazione – copia non ufficiale 7 e 4 della direttiva 2001/23/CE, “implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento”.

(sentenza 6 marzo 2014, C-458/12; sentenza 13 giugno 2019, C-664/2017) (Cass. n. 22249/2021)  

In definitiva, il ramo ceduto deve essere in grado di svolgere attività di impresa indipendentemente dall’eventuale contratto di fornitura di servizi che venga contestualmente stipulato fra cedente e cessionaria. (Cass. n. 19034/2017: in quel giudizio questa Corte ha cassato la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto integrato il trasferimento di ramo d’azienda nel caso di cessione di un call center. Benché per la realizzazione dell’attività ceduta fosse necessaria una continua interazione con programmi informatici rimasti nella proprietà esclusiva della cedente; nello stesso senso, Cass. n. 11247/2016). 

Il principio di autonomia funzionale nella giurisprudenza della CGUE

A sostegno della tesi adottata dalla Cassazione, la pronuncia richiama due fondamentali decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea: C-458/12 (Amatori) e C-664/17 (Ellinika Nafpigeia). In entrambi i casi, la CGUE ha sottolineato come l’autonomia dell’entità ceduta debba preesistere al trasferimento e conservare la propria identità post cessione, con particolare riguardo alla capacità organizzativa e funzionale dell’unità produttiva.

L’uso del termine “conservi” (art. 6, par. 1 della direttiva 2001/23) implica che il nucleo organizzativo oggetto di trasferimento debba essere in grado di continuare l’attività senza soluzione di continuità, anche nella nuova struttura. Tale parametro si pone come limite all’estensione automatica della disciplina dell’art. 2112 c.c., fungendo da barriera rispetto a operazioni meramente nominali o funzionalmente dipendenti.

Il riferimento alla giurisprudenza europea conferma l’importanza di mantenere un approccio sostanziale nella valutazione della cessione, orientato alla tutela effettiva del lavoratore, che potrebbe altrimenti essere esposto a manovre elusive, come il trasferimento di personale privo di strumenti per operare in autonomia. La dimensione europea della disciplina consente, inoltre, un confronto sistemico tra ordinamenti, favorendo l’emersione di standard comuni di tutela.

La motivazione per relationem: fra legittimità e apparenza

Il secondo asse problematico della sentenza riguarda l’onere motivazionale nel giudizio d’appello. Le ricorrenti censuravano la Corte territoriale per aver motivato per relationem, aderendo acriticamente alla sentenza di primo grado.

La Cassazione respinge tale censura, riaffermando il principio, consolidato sin da Cass. S.U. n. 8053/2014, secondo cui la motivazione per relationem è legittima ove emerga l’effettiva condivisione critica degli argomenti esposti dal primo giudice. Essa soddisfa il c.d. “minimo costituzionale” di motivazione, purché sia riconoscibile il percorso logico e giuridico che ha condotto alla decisione.

Resta però aperto il tema, non secondario, del bilanciamento tra esigenze di sintesi e necessità di controllo democratico sul provvedimento giurisdizionale. Ciò specie in ambiti ad alta serialità decisoria. La standardizzazione delle motivazioni può, infatti, comportare un abbassamento del livello qualitativo della giustizia, con il rischio di minare la fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario.

Inoltre, in un contesto in cui l’intelligenza artificiale e l’automazione stanno entrando nei processi decisionali, sarà importante interrogarsi sul ruolo della motivazione giuridica come strumento di garanzia, trasparenza e legittimazione dell’esercizio del potere giurisdizionale.

La sentenza conferma un orientamento rigoroso in ordine ai requisiti di configurabilità del ramo d’azienda, ribadendo la necessità di una concreta autonomia funzionale preesistente alla cessione. Al contempo, essa introduce elementi di modernità, ammettendo, sul piano teorico, l’esistenza di rami d’impresa composti da asset immateriali.

In una fase storica in cui il lavoro si smaterializza e si de-localizza, il diritto è chiamato a ripensare categorie codicistiche nate in un’economia fordista, adattandole alla fluidità delle forme produttive contemporanee. La sfida sarà quella di non abbandonare la sostanza protettiva delle norme, pur riconoscendo la mutevolezza delle forme. Il ramo d’azienda del futuro sarà forse più simile a un algoritmo che a un capannone industriale, ma il lavoratore continuerà ad avere bisogno di garanzie tangibili.

In tale scenario, la funzione della giurisprudenza resta centrale: discernere l’apparenza dalla sostanza, e garantire che la forma non si sostituisca alla tutela. Solo un diritto in grado di leggere le trasformazioni della realtà economica potrà mantenere intatta la propria funzione di strumento di giustizia sociale. La sfida per il giurista non sarà quella di difendere il passato, ma di costruire, nel presente, le condizioni per una protezione giuridica adeguata alla complessità dell’impresa post-industriale.

La Sentenza