Il tetto crollato: il caso delle sei mensilità e il risveglio costituzionale della tutela del lavoro
Nel diritto del lavoro, la misura non è solo questione di numeri: è sostanza, è giustizia. La sentenza n. 118/2025 della Corte costituzionale infrange un argine normativo che da troppo tempo limitava la piena espansione di una tutela equa: quello delle sei mensilità massime per il risarcimento dei licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese. È una decisione che fa eco. Perché non corregge semplicemente un dettaglio tecnico, ma riapre la porta alla personalizzazione del danno, all’umanità del diritto.
Sentenza in Calce
Il contesto normativo: la parabola del d.lgs. 23/2015
Con il Decreto legislativo n. 23 del 2015 — parte del cosiddetto Jobs Act — il legislatore ha inteso riscrivere il regime delle tutele contro i licenziamenti, introducendo un sistema a tutele crescenti. Per i datori di lavoro che non superano i limiti dimensionali previsti dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (15 dipendenti per sede o 60 complessivi), l’art. 9, comma 1, disponeva che l’indennità risarcitoria dovesse essere dimezzata rispetto a quella prevista per le imprese “sopra soglia” e, soprattutto, non potesse mai superare le sei mensilità dell’ultima retribuzione utile al calcolo del TFR per ogni anno di servizio.
In pratica: da tre a sei mensilità, qualunque fosse il vizio del licenziamento. Poca importanza aveva se si trattasse di una violazione formale o di un licenziamento discriminatorio mascherato.
Il criterio? Il numero dei dipendenti. Requisito già oggetto del referendum del giugno 2025.
Il dubbio di costituzionalità e la miccia accesa a Livorno
È stato il Tribunale di Livorno a rompere l’inerzia, sollevando la questione di legittimità costituzionale: può davvero il legislatore comprimere così drasticamente l’indennizzo per i lavoratori delle piccole imprese, fondandosi unicamente su un criterio quantitativo, ormai incapace di riflettere la vera forza economica del datore di lavoro?
Le censure sono molteplici, ma il cuore è uno: l’irragionevole standardizzazione della tutela, lesiva dell’art. 3 Cost. (eguaglianza), dell’art. 41 (limiti all’iniziativa economica), dell’art. 35 (tutela del lavoro), fino all’art. 117 Cost. in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea: il diritto a un’indennità congrua.
- Art. 3 Cost.: è violato il principio di uguaglianza, sia in senso formale (trattando in modo uguale situazioni differenti) che sostanziale. La norma censurata impedisce al giudice di differenziare le conseguenze risarcitorie in base alla gravità dell’illegittimità del licenziamento, omologando casi molto diversi: un licenziamento per banale vizio formale e uno per discriminazione razziale sono compensati allo stesso modo.
- Art. 35 Cost.: la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme. Una tutela indennitaria così ridotta e rigida compromette questo mandato, svalutando la posizione del lavoratore, specialmente nel momento più vulnerabile: l’espulsione ingiustificata dal posto di lavoro.
- Art. 41, secondo comma, Cost.: la libertà d’impresa trova limite nei diritti fondamentali. Qui, l’eccessiva protezione del datore “sottosoglia” (che può licenziare con costi risibili) stravolge l’equilibrio tra libertà imprenditoriale e tutela della dignità del lavoratore.
- Art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 24 CSE: la Carta sociale europea impone agli Stati membri il dovere di garantire un’indennità congrua in caso di licenziamento ingiustificato. Un tetto fisso e basso come quello previsto all’art. 9, comma 1, del d.lgs. 23/2015 non soddisfa questa esigenza.
Il Tribunale di Livorno, riprendendo i moniti della Corte nella sentenza n. 183/2022, insiste: non si può fondare un intero regime sanzionatorio sul solo parametro del numero di dipendenti, oggi del tutto inadeguato a rappresentare la reale forza economica di un’impresa. In un contesto produttivo trasformato dalla tecnologia e dalla flessibilità organizzativa, piccola dimensione non equivale più a debolezza strutturale.
In sostanza, il giudice rimettente ha chiesto alla Corte di rimuovere quel limite rigido delle sei mensilità, non per sostituirlo con una nuova misura fissa, ma per ripristinare un margine di discrezionalità giudiziale, in cui siano considerati tutti i fattori rilevanti: la durata del rapporto, le condizioni del lavoratore, la natura del vizio, la condotta delle parti, e sì, anche le dimensioni economiche del datore, ma non come unico criterio.
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Il ragionamento della Corte Costituzionale: l’equilibrio è (di nuovo) un dovere
La Corte, con la sua sentenza n. 118/2025, compie un passo deciso. Dopo aver già ammonito il legislatore con la sentenza n. 183/2022 — in cui aveva denunciato il vulnus costituzionale senza però intervenire — stavolta non attende più. L’inerzia normativa è divenuta intollerabile.
La Corte non tocca il dimezzamento dell’indennità, che resta possibile in abstracto, purché venga mantenuta una forbice che permetta al giudice di calibrare la decisione. Ma elimina il “tetto” invalicabile delle sei mensilità. Perché non si può sacrificare il diritto a un risarcimento adeguato sull’altare della semplificazione.
Non è questione di calcolo: è questione di giustizia sostanziale.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 118/2025, interviene quindi sulla scia di un percorso giurisprudenziale ormai consolidato, che afferma il principio secondo cui anche la tutela indennitaria deve rispettare i canoni della ragionevolezza, dell’effettività e della personalizzazione del danno.
Fin dalla storica sentenza n. 45 del 1965, la Corte ha riconosciuto nel diritto al lavoro una «libertà fondamentale della persona umana», che impone garanzie specifiche contro l’arbitrarietà del recesso. Le successive pronunce — dalla n. 60 del 1991 fino alla n. 194 del 2018 — hanno chiarito che non esiste un obbligo costituzionale di reintegrazione, ma ogni tutela risarcitoria deve essere «adeguata e dissuasiva», idonea a riflettere la specificità del caso concreto.
La sentenza n. 303 del 2011 ha affermato che anche una tutela solo monetaria può essere legittima, purché non standardizzata. La n. 150 del 2020 ha bocciato la previsione di indennità forfetarie e rigide, perché incapaci di adattarsi alla molteplicità delle situazioni lavorative. E, infine, la n. 183 del 2022 ha messo in guardia proprio contro il rischio di fissare limiti «troppo stretti» per i datori di lavoro sottosoglia, dichiarando l’«esiguità dell’intervallo» come incompatibile con l’art. 3 Cost. e con l’art. 24 della Carta sociale europea.
“[…]Proprio con riferimento al d.lgs. n. 23 del 2015, questa Corte ha ritenuto compatibile con la Carta fondamentale una tutela meramente monetaria, purché improntata ai canoni di effettività e di adeguatezza, rilevando che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., «terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore», non impone «un determinato regime di tutela» (sentenza n. 194 del 2018). In altri termini, il legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela contro i licenziamenti illegittimi anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), a condizione, tuttavia, che tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza e muova dalla considerazione che il licenziamento illegittimo, ancorché «idoneo a estinguere il rapporto di lavoro, costituisce pur sempre un atto illecito» (sentenza n. 194 del 2018). […]
Proprio in virtù di questa continuità, la Corte nel 2025 conclude che il tetto rigido e invalicabile delle sei mensilità non è più tollerabile. Richiamando i parametri europei — come la raccomandazione CE 2003/361 e la direttiva delegata (UE) 2023/2775 — la Corte afferma che la sola dimensione occupazionale non basta a definire la capacità economica del datore. Il numero dei dipendenti, da solo, è un criterio superato.
Il legislatore può certamente mantenere un trattamento differenziato per le imprese più piccole, ma non può privare il giudice della possibilità di adattare l’indennità alle circostanze del caso. Come ha già statuito nella sentenza n. 194 del 2018, la rigidità della misura risarcitoria «si traduce in un’indebita omologazione di situazioni» e quindi in una violazione del principio di uguaglianza.
[…] In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria deve essere configurata in modo tale da consentire al giudice di modularla alla luce di una molteplicità di fattori (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’impresa, anzianità di servizio del prestatore di lavoro, comportamento e condizioni delle parti) al fine di soddisfare l’«esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, […] imposta dal principio di eguaglianza» (ancora sentenza n. 194 del 2018). Pertanto, con la pronuncia da ultimo citata, questa Corte ha affermato che «[l]a previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse», in violazione, quindi, del principio di eguaglianza.
La Corte riconosce che il dimezzamento dell’indennità, purché incardinato in un sistema flessibile e con una forbice ampia, può sopravvivere. Ma ciò che non può resistere è l’imposizione di un tetto assoluto, che finisce per annullare la discrezionalità giudiziale e la funzione dissuasiva della sanzione.
L’intervento, dunque, non è innovativo ma evolutivo: un passaggio coerente di un cammino già tracciato, in cui la dignità del lavoratore resta misura e fine ultimo della giustizia.
Una questione di dignità
Il lavoratore non è solo una cifra nella contabilità aziendale. È una persona, portatrice di diritti, la cui esclusione ingiusta dal lavoro comporta conseguenze diverse, complesse, spesso gravi. Una tutela indennitaria “stretta in una forbice così esigua da risultare una liquidazione legale forfetizzata” — come scrive la Corte — non basta più.
Il risarcimento deve tornare ad essere personalizzabile, coerente con la gravità del licenziamento e con la vulnerabilità del soggetto leso. Solo così la sanzione acquista efficacia deterrente e senso compensativo.
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E adesso? L’intervento del legislatore è atteso, ancora una volta
La Corte, ancora una volta, lascia un appello al Parlamento: riformare la disciplina delle tutele per i lavoratori “sottosoglia”, tenendo conto non solo del numero dei dipendenti, ma anche di altri indici di forza economica: fatturato, bilancio, capacità organizzativa.
Si tratta di un invito a superare l’indicatore aritmetico e abbracciare la complessità dell’impresa moderna.
Ma attenzione: fino a quando non interverrà il legislatore, spetta al giudice rideterminare l’indennizzo senza più quel tetto invalicabile. Una nuova stagione si apre per il contenzioso del lavoro, dove la funzione giudiziale si espande in nome del principio di eguaglianza e dignità.
la misura della giustizia è la persona
Con questa sentenza, la Corte costituzionale non riscrive una legge: riafferma un principio. La tutela del lavoratore, soprattutto quello più esposto e fragile, non può essere compressa in formule preconfezionate. Deve essere viva, aderente alla realtà, capace di adattarsi alle specificità del caso concreto.
Il diritto al lavoro non è un beneficio discrezionale dell’impresa. È un diritto fondamentale. E oggi, grazie alla sentenza n. 118/2025, lo è un po’ di più.