Obblighi degli Stati in materia di cambiamenti climatici

Il Diritto nella Tempesta: La Corte Internazionale di Giustizia e il Nuovo Volto della Responsabilità Climatica

La svolta dell’Aia. Il 23 luglio 2025, la Corte Internazionale di Giustizia (CIJ) ha espresso un parere consultivo che avrà importanti ricadute nelle politiche climatiche future. Esprimendosi sugli obblighi degli Stati in materia di cambiamenti climatici la Corte ha creato un documento potenzialmente dirompente nella politica futura. Una pronuncia che ridefinisce il perimetro degli obblighi giuridici degli Stati in relazione ai cambiamenti climatici. L’opinione, adottata all’unanimità — evento raro nella prassi della Corte — ha risposto a una richiesta dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (risoluzione 77/276 del 29 marzo 2023) ai sensi dell’art. 65 dello Statuto della Corte.

La domanda, articolata in due parti, sollecitava chiarimenti su:

(a) Gli obblighi degli Stati, secondo il diritto internazionale, per proteggere il sistema climatico e l’ambiente da emissioni antropogeniche di gas serra, nell’interesse delle generazioni presenti e future;

(b) Le conseguenze legali in caso di violazione di tali obblighi, in particolare verso Stati vulnerabili e persone colpite dai cambiamenti climatici.


Una risposta articolata e sistemica

La CIJ ha fornito una risposta che rappresenta un autentico punto di svolta nella giurisprudenza climatica. Gli Stati hanno l’obbligo di tutelare l’ambiente e il clima e sopratutto tutelare le società dai cambiamenti climatici. Gli obblighi degli Stati derivano, secondo la Corte, da un insieme articolato di fonti:

  1. Trattati multilaterali: tra cui la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), il Protocollo di Kyoto, l’Accordo di Parigi;
  2. Diritto internazionale consuetudinario, incluso l’obbligo di prevenire danni significativi all’ambiente e il dovere di cooperazione;
  3. Altri trattati ambientali: come la Convenzione di Vienna per la protezione dello strato di ozono. il Protocollo di Montreal, la Convenzione sulla Biodiversità, la Convenzione ONU per la lotta alla desertificazione e la Convenzione ONU sul diritto del mare;
  4. Diritto internazionale dei diritti umani: in particolare gli articoli 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e gli articoli 2 e 7 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE).

Gli obblighi così individuati includono: la riduzione progressiva delle emissioni, l’adozione di misure di adattamento, la cooperazione internazionale, il rispetto del principio di precauzione e la tutela intergenerazionale. Secondo la Corte, il mancato rispetto di tali obblighi costituisce un illecito internazionale, da cui discendono doveri di cessazione, garanzia di non ripetizione e riparazione (restituzione, compensazione e soddisfazione). Quindi obblighi non teorici, obblighi materiali, vivi, reali, tangibili.

Il diritto internazionale consuetudinario stabilisce l’obbligo per gli Stati di garantire la protezione del sistema climatico e di altre parti dell’ambiente dalle emissioni di gas serra di origine antropica.obblighi includono quanto segue:
(a) gli Stati hanno il dovere di prevenire danni significativi all’ambiente agendo con la dovuta diligenza e di utilizzare tutti i mezzi a loro disposizione per impedire che le attività svolte nell’ambito della loro giurisdizione o del loro controllo causino danni significativi al sistema climatico e ad altre parti dell’ambiente, in conformità con le loro responsabilità comuni ma differenziate e le rispettive capacità;
(b) gli Stati hanno il dovere di cooperare tra loro in buona fede per prevenire danni significativi al sistema climatico e ad altre parti dell’ambiente, il che richiede forme di cooperazione sostenute e continue da parte degli Stati nell’adottare misure per prevenire tali danni.

Ma si può ragionevolmente dare la colpa ad un singolo Stato?

La Corte ha riconosciuto che, sebbene il cambiamento climatico derivi da un insieme di condotte cumulative nel tempo, è scientificamente possibile individuare il contributo di ciascuno Stato alle emissioni globali. Sia passate che presenti. Non sono le emissioni in sé a costituire illecito, ma le azioni o omissioni che causano danni significativi al sistema climatico in violazione di obblighi internazionali. Ogni Stato danneggiato può invocare la responsabilità, anche separatamente, nei confronti di ogni Stato colpevole. Quanto al nesso causale, la Corte afferma che, pur essendo più complesso nel contesto climatico, resta giuridicamente valutabile caso per caso, anche grazie al supporto delle evidenze scientifiche. Infine, sottolinea che gli obblighi di protezione del clima rientrano tra quelli erga omnes: vincolano cioè tutti gli Stati, in quanto tutelano beni comuni globali come l’atmosfera.

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Obblighi verso chi? Lo Stato e la sua collettività

Sebbene l’opinione della Corte si inserisca all’interno del quadro formale della responsabilità tra Stati, le sue ricadute non si esauriscono in quella dimensione interstatale. Al contrario, proprio il riconoscimento che gli obblighi climatici sono erga omnes — cioè dovuti nei confronti della comunità internazionale nel suo complesso — apre un varco dirompente anche all’interno degli ordinamenti nazionali. In altre parole, se uno Stato è giuridicamente tenuto a prevenire danni gravi e irreversibili al sistema climatico globale, tale obbligo non è più confinabile in una sfera politica o meramente diplomatica. Diventa, potenzialmente, giustiziabile anche da parte di soggetti interni: cittadini, associazioni, comunità locali che, nel subire gli effetti concreti della crisi climatica, possono allegare una lesione attuale e concreta di diritti soggettivi o interessi legittimi. Così, anche se la Corte non si rivolge ai singoli individui, la sua decisione contribuisce a ridefinire il perimetro della legittimazione attiva davanti ai giudici nazionali: non più solo i governi possono interrogare la legalità climatica dello Stato, ma anche i cittadini, quando la condotta (o l’inerzia) pubblica si traduce in danno ambientale, sanitario, territoriale.

Ogni goccia di inquinamento, ogni azione mancata può diventare, dinanzi a un giudice nazionale, l’oggetto di una domanda di verità, di responsabilità, di obbligo giuridico.

La pronuncia della CIJ, quindi, mette in evidenza come gli obblighi climatici non siano solo orizzontali (cioè operanti tra Stati, nella logica tradizionale della responsabilità interstatale), ma abbiano anche una fondamentale dimensione verticale. Si proiettano verso individui, comunità e generazioni future. Ciò implica che gli Stati non sono chiamati solo a evitare di danneggiarsi reciprocamente, ma devono attivamente tutelare i diritti delle persone sottoposte alla loro giurisdizione. Questa visione, già affermata in altre sedi (come nella sentenza Verein KlimaSeniorinnen Schweiz c. Svizzera, Corte EDU, 9 aprile 2024), riconosce che la protezione del clima è una precondizione strutturale per l’effettivo esercizio dei diritti fondamentali: il diritto alla vita (art. 2 CEDU), alla vita privata e familiare (art. 8 CEDU), alla salute e all’integrità personale (artt. 2 e 7 CDFUE) non sono astratti, ma presuppongono un ambiente salubre e un clima stabile. In questa prospettiva, l’ambiente e il clima non sono beni giuridici accessori, ma condizioni abilitanti senza le quali gli altri diritti risultano svuotati di contenuto concreto. La dimensione verticale impone dunque un obbligo positivo allo Stato: adottare misure efficaci, tempestive e proporzionate per prevenire i cambiamenti climatici e attenuarne gli effetti dannosi sulla vita delle persone.

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Ciò ha una ricaduta diretta anche sugli ordinamenti nazionali.

Gli obblighi internazionali, specie quando recepiti (come l’Accordo di Parigi in Italia con L. n. 204/2016), diventano parametri di legalità interna. Se una regione o un comune omette l’attuazione di misure climatiche imposte da norme europee, internazionali o costituzionali, tale inazione può essere sindacata dal giudice nazionale.

Ottima domanda. Quando diciamo che la pronuncia della Corte Internazionale di Giustizia (CIJ) ha “una ricaduta diretta anche sugli ordinamenti nazionali”, non intendiamo che essa sia giuridicamente vincolante in senso stretto per giudici, governi o amministrazioni interne. Trattandosi di un’opinione consultiva (art. 65 dello Statuto CIJ), essa non ha forza obbligatoria come una sentenza resa in un contenzioso tra Stati. Tuttavia, ha una rilevanza giuridica e sistemica di prim’ordine.

La sua efficacia giuridica opera in senso “parametrico” e interpretativo:

  1. Parametri per i giudici nazionali: i tribunali interni, soprattutto quelli di grado superiore (Corte costituzionale, Corte di cassazione, Consiglio di Stato), possono utilizzare l’opinione come parametro interpretativo per leggere in chiave evolutiva norme costituzionali, internazionali recepite (come l’Accordo di Parigi, L. 204/2016) e normative europee.
  2. Obbligo di conformazione degli organi amministrativi: anche gli atti delle pubbliche amministrazioni (es. piani ambientali regionali, programmi di decarbonizzazione comunali, VIA e VAS) dovranno tener conto dell’opinione come fonte di orientamento sistemico, pena l’illegittimità per eccesso di potere o violazione di norme di rango superiore.
  3. Legittimazione dell’azione civile o amministrativa: la pronuncia rafforza la possibilità per cittadini e associazioni di promuovere ricorsi fondati sulla violazione di obblighi ambientali. Un giudice nazionale, pur non vincolato formalmente, sarà difficilmente legittimato a disattendere un’opinione così autorevole e consolidata su standard internazionali di condotta.

In sintesi: non è obbligatoria, ma è vincolante in via indiretta — come fonte interpretativa autorevole, parametro di legittimità degli atti pubblici e criterio di valutazione nei giudizi per omissione o responsabilità climatica. Un giudice che volesse disapplicarla dovrebbe motivare con argomenti molto solidi, e un’amministrazione che non ne tenesse conto potrebbe incorrere in censure di legittimità.


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Dalla Corte internazionale al tribunale ordinario: una nuova stagione di contenzioso climatico?

Se immaginiamo che il parere della Corte internazionale di giustizia sul clima venga assunto come parametro interpretativo vincolante – o comunque fortemente persuasivo – per le corti nazionali, ciò potrebbe aprire scenari giuridici nuovi e complessi. In teoria, i giudici potrebbero tener conto di questo standard nel valutare se gli Stati abbiano rispettato i propri obblighi climatici. Ma, attenzione: questo non significa automaticamente che ogni cittadino possa fare causa allo Stato o agli enti territoriali ogni volta che percepisce un ritardo o un’insufficienza nelle politiche ambientali. Ovviamente.

Perché una controversia possa essere giurisdizionalmente accolta, infatti, serve molto di più di una semplice inadempienza normativa. Serve un interesse legittimo, cioè un diritto soggettivo concreto, reale, tutelabile, che si ritenga violato o messo in pericolo dall’azione o dall’omissione pubblica. Serve inoltre la dimostrazione di un nesso di causalità tra quella specifica condotta o omissione e un danno concreto, attuale o quantomeno imminente, che si ripercuote sulla sfera giuridica del singolo o della collettività.

Non basta dunque la generica insoddisfazione per una politica ambientale insufficiente o il timore di un futuro danno climatico.

I cittadini o le associazioni dovrebbero riuscire a provare che, ad esempio, il mancato rispetto di un obbligo di piantumazione di alberi, o la carenza nell’attuazione di misure di riduzione delle emissioni, producono effetti tangibili sui loro diritti fondamentali — come il diritto alla salute, all’ambiente sano, o anche il diritto alla vita stessa, ormai riconosciuto sempre più spesso nella giurisprudenza come strettamente legato alla protezione climatica.

In questo senso, la “dimensione verticale” della tutela climatica si manifesta proprio nella relazione tra Stato e cittadino, dove il primo è tenuto a garantire condizioni ambientali compatibili con l’esercizio effettivo dei diritti umani. Se lo Stato manca in questo, non si tratta più solo di una questione politica o amministrativa, ma di una questione giuridica che può essere portata davanti a un giudice, sempre a patto che il ricorrente riesca a dimostrare la sussistenza di un danno concreto e diretto.

Questa impostazione sottolinea una tensione strutturale tra la funzione legislativa ed esecutiva dello Stato e il ruolo giudiziario di controllo, che – come indicato nella sentenza – non sostituisce ma integra il processo democratico. In questo quadro, le corti potrebbero diventare un luogo cruciale per rendere effettivo il diritto alla protezione climatica, ma solo quando la domanda ha i requisiti di giurisdizionalità e concretezza previsti dal nostro ordinamento.


Un cittadino, un’associazione, persino una collettività locale, potrebbero, quindi, ipoteticamente promuovere un’azione giudiziaria contro Stato, Regioni o Comuni, invocando:

  • L’art. 2043 c.c. (responsabilità extracontrattuale);
  • Gli artt. 2 e 8 CEDU (vita e vita privata);
  • Gli artt. 2 e 7 CDFUE (dignità, salute, ambiente);
  • Gli obblighi pattizi derivanti dall’Accordo di Parigi;
  • Le disposizioni cogenti dei regolamenti europei.

Un caso ipotetico, ma realistico: un regolamento UE impone la piantumazione di una quota minima di alberi per compensare le emissioni. Una Regione italiana omette di predisporre un piano di attuazione. Un gruppo di cittadini, dimostrando l’esistenza di un danno ambientale o sanitario, può agire dinanzi al giudice ordinario chiedendo:

  1. L’accertamento dell’illecito (omissione);
  2. L’adozione di misure correttive (azione inibitoria);
  3. Un risarcimento per i danni subiti (azione risarcitoria).

La sentenza della Corte EDU nel caso KlimaSeniorinnen ha già riconosciuto che l’azione giudiziaria è complementare alla funzione legislativa, non sostitutiva. Ciò significa che, in presenza di obblighi vincolanti non rispettati, il giudice può e deve intervenire.


Le implicazioni sistemiche: verso un diritto climatico giurisdizionalizzato

L’opinione della Corte Internazionale di Giustizia segna una svolta non solo giuridica, ma anche culturale. Quando diciamo che il clima è un fatto giuridico e non solo politico, intendiamo sottolineare una distinzione fondamentale: la politica è spesso vista come terreno di negoziazioni, compromessi e scelte discrezionali, soggette a maggioranze e dinamiche elettorali. La dimensione giuridica, invece, impone una concretezza vincolante: gli obblighi normativi assumono un carattere cogente, misurabile, e, soprattutto, verificabile da un giudice.

Non è più solo questione di “volontà politica” o di opportunità strategica, ma di rispetto di regole che vincolano gli Stati a proteggere il clima e, attraverso esso, i diritti fondamentali dei loro cittadini.

Questa trasformazione significa che il clima non è più solo una materia di relazioni internazionali fra Stati, ma riguarda direttamente le vite quotidiane di individui e comunità, che possono veder lesi i propri diritti fondamentali — dal diritto alla vita alla salute, dalla dignità umana all’ambiente sano. Le norme internazionali e costituzionali che la Corte richiama diventano così strumenti concreti per affermare e difendere quei diritti davanti ai tribunali nazionali.

In definitiva, ci troviamo davanti a un nuovo paradigma: la responsabilità climatica non è più un semplice dovere morale o un impegno volontario, ma un vero e proprio obbligo giuridico sanzionabile.

Cosa significa in concreto? Che un cittadino o un’associazione potrebbero, ad esempio, attivare un’azione legale per chiedere:

  • il riconoscimento della violazione da parte di uno Stato o di un ente territoriale dei suoi obblighi climatici;
  • la condanna al risarcimento dei danni subiti a causa di comportamenti o omissioni inadeguate nella tutela ambientale;
  • l’imposizione di obblighi di fare, cioè misure concrete di prevenzione o di riparazione, che il giudice può ordinare per garantire il rispetto della legge e dei diritti fondamentali.

Tale evoluzione apre la strada a un contenzioso climatico più frequente e strutturato, che potrà esercitare una pressione giudiziaria importante sugli Stati e sugli enti locali, obbligandoli a intervenire con maggiore efficacia e tempestività. In questo senso, la “tempesta climatica” non è solo meteorologica, ma anche normativa e giudiziaria: una sfida che richiede ai giudici, oggi più che mai, di navigare con equilibrio e rigore fra diritto, scienza e politica, per rendere concreto il diritto a un futuro sostenibile.

La tempesta climatica in corso non è solo meteorologica: è anche normativa. E i giudici, oggi più che mai, sono chiamati a navigarla.


Leggi il parere della Corte

Bibliografia essenziale:
  • Accordo di Parigi (2015), ratificato in Italia con Legge n. 204/2016;
  • UNFCCC (1992), Protocollo di Kyoto (1997);
  • CEDU, artt. 2 e 8; CDFUE, artt. 2 e 7;
  • Corte EDU, sent. Verein KlimaSeniorinnen Schweiz c. Svizzera, 9 aprile 2024;
  • Corte Internazionale di Giustizia, Advisory Opinion on the Obligations of States in respect of Climate Change, 23 luglio 2025.