La Corte di Giustizia dell’UE sulla designazione dei Paesi di origine sicuri: il caso LC e CP vs. Commissione territoriale di Roma
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Sezione, 1° agosto 2025) nelle cause riunite C-758/24 e C-759/24, promosse da due cittadini del Bangladesh, offre un importante chiarimento sui limiti entro cui uno Stato membro può designare un Paese terzo come “Paese di origine sicuro” ai sensi della direttiva 2013/32/UE. Molto interessante è il percorso argomentativo seguito dalla Corte di Giustizia sui Paesi di origine sicuri, i suoi principali riferimenti giurisprudenziali e le implicazioni pratiche e normative per l’ordinamento italiano, che con il decreto-legge n. 158/2024 aveva previsto una designazione legislativa dei POS priva delle necessarie garanzie di pubblicità, trasparenza e verificabilità delle fonti informative.
In calce il commento dell'Avv. Leandro Grasso e la sentenza
il contesto del rinvio pregiudiziale
Il Tribunale ordinario di Roma, investito dei ricorsi presentati da due cittadini bangladesi (LC e CP) le cui domande di protezione internazionale erano state respinte in seguito a una procedura accelerata di frontiera, ha sollevato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’UE ai sensi dell’art. 267 TFUE. Le questioni giuridiche poste riguardavano la compatibilità della designazione legislativa del Bangladesh come Paese di origine sicuro, sancita dall’art. 2-bis del D.lgs. n. 25/2008 come modificato dal decreto-legge n. 158/2024, con gli articoli 36, 37 e 46 della direttiva 2013/32/UE, nonché con l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Il giudice rimettente lamentava l’assenza di pubblicità delle fonti informative utilizzate per giustificare tale designazione e l’impossibilità, tanto per i richiedenti quanto per lo stesso giudice, di sindacare l’autorevolezza, la pertinenza, l’attualità e la completezza delle informazioni su cui si fondava l’elenco dei Paesi considerati sicuri, ora incluso direttamente in un atto legislativo. Tale situazione sollevava dubbi circa il rispetto del principio del giusto processo e del diritto a un ricorso effettivo.
In pratica il Legislatore senza minimamente spiegare, dimostrare o documentare ritiene a prescindere un paese sicuro, generalmente e per tutti. E pretende che tale decisione non venga contestata, né che casi particolari vengano analizzati nella loro unicità. Il Bangladesh può essere preso facilmente d’esempio è un paese con forti contrasti etnici in alcune zone, con rischio di terrorismo elevato.
Dal sito istituzionale: “Si sconsigliano i viaggi turistici e tutti gli altri viaggi non urgenti a destinazione del Bangladesh. A causa delle tensioni politiche, etniche e religiose scontri violenti possono verificarsi in qualsiasi momento. L’evoluzione della situazione è incerta e un deterioramento della sicurezza per quanto riguarda la sicurezza è possibile a ogni istante.”
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La disciplina europea: tra presunzione relativa e garanzie procedurali
Gli articoli 36 e 37 della direttiva 2013/32/UE regolano, rispettivamente, il concetto e la designazione a livello nazionale dei Paesi di origine sicuri (POS). La ratio di tale normativa risiede nell’esigenza di garantire un trattamento rapido ed efficiente delle domande di protezione internazionale, a condizione che la sicurezza nel Paese di origine sia presunta soltanto in modo relativo. Infatti, ogni richiedente ha il diritto di superare tale presunzione dimostrando, in base alla sua situazione individuale, motivi seri e comprovati per cui il suo ritorno nel Paese d’origine comporterebbe un rischio di persecuzione o trattamento inumano o degradante.
Il sistema delineato dalla direttiva richiede un’esigenza fondamentale di trasparenza e aggiornamento delle fonti informative. L’allegato I della direttiva specifica i criteri materiali per la designazione dei POS: tra questi, spiccano l’assenza sistemica di violazioni gravi dei diritti umani, il rispetto dei principi sanciti dalla CEDU e dalla Convenzione di Ginevra sul non-refoulement, nonché l’esistenza di un sistema di ricorsi giurisdizionali efficaci contro eventuali abusi.
La posizione della Corte di Giustizia sui Paesi di origine sicuri: forma legittima, sostanza vincolante
La Corte di Giustizia ha affermato che non è, di per sé, contraria al diritto dell’Unione la designazione legislativa dei Paesi di origine sicuri. L’articolo 37 della direttiva 2013/32/UE consente agli Stati membri di mantenere o adottare una normativa che disciplini tale designazione, senza imporre una forma giuridica predeterminata, ammettendo dunque anche l’adozione mediante atto di rango legislativo.
Tuttavia, la Corte ha ribadito con forza che tale designazione non può sottrarsi al principio della tutela giurisdizionale effettiva, sancito dagli articoli 46, par. 3, della direttiva e 47 della Carta. Ciò significa che:
il giudice nazionale deve essere messo in condizione di verificare in concreto la sussistenza delle condizioni sostanziali di sicurezza per il Paese designato;
è indispensabile che lo Stato garantisca l’accessibilità, la trasparenza e la verificabilità delle fonti informative che hanno fondato la designazione, permettendo così un controllo giurisdizionale pieno e un contraddittorio effettivo.
“Inoltre, pur spettando, in mancanza di una disciplina dell’Unione in materia, all’ordinamento giuridico interno, in forza del principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri e fatta salva l’osservanza dei principi di equivalenza e di effettività, disciplinare le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti individuali derivanti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, gli Stati membri sono tuttavia tenuti ad assicurare, in ciascun caso, il rispetto del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva di tali diritti, quale garantito dall’articolo 47 della Carta; nel caso di specie, la portata di tale diritto è precisata dall’articolo 46 della direttiva 2013/32 (v., in tal senso, sentenza del 3 luglio 2025, Al Nasiria, C‑610/23, EU:C:2025:514, punto 51 e giurisprudenza citata). Ne consegue che la scelta, da parte di uno Stato membro, dell’autorità competente e dello strumento giuridico di designazione, a livello nazionale, di paesi di origine sicuri ai sensi degli articoli 36 e 37 della direttiva 2013/32 non può incidere sugli obblighi ad esso incombenti in applicazione di tale direttiva. Spetta dunque, in particolare, a ciascuno Stato membro garantire il rispetto del diritto a un ricorso giurisdizionale effettivo, che l’articolo 46, paragrafo 1, di detta direttiva riconosce ai richiedenti protezione internazionale avverso le decisioni relative alle loro domande, e di cui l’articolo 46, paragrafo 3, della medesima direttiva definisce la portata.”
I principi internazionali che guidano il Diritto
Il nodo della trasparenza: contraddizione con il decreto-legge italiano
Con il decreto-legge n. 158/2024, il legislatore italiano ha introdotto nel corpo dell’art. 2-bis del D.lgs. n. 25/2008 un elenco legislativo vincolante di Paesi di origine sicuri, comprendente anche il Bangladesh. Tale elencazione, tuttavia, è stata formulata senza alcun riferimento esplicito alle fonti informative, senza allegazione delle schede paese e senza predisporre meccanismi di aggiornamento o verifica trasparente.
Questa impostazione è stata giudicata dalla Corte in contrasto con gli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione, poiché preclude al richiedente la possibilità di confutare la presunzione di sicurezza e impedisce al giudice di sindacare la fondatezza sostanziale della designazione.
In particolare, la Corte ha sottolineato che una presunzione di sicurezza è compatibile con il diritto europeo solo se “contestabile e sindacabile” alla luce di fonti accessibili, aggiornate e attendibili. Il mancato accesso alle basi documentali su cui si fonda la designazione legislativa determina una violazione diretta degli articoli 46 e 47 delle norme europee pertinenti. In pratica gli automatismi insindacabili, tanto cari ai legislatori “semplici”, sono una violazione dei diritti delle persone.
Lo Stato membro, che designa un paese terzo come paese di origine sicuro, deve garantire un accesso sufficiente e adeguato alle fonti di informazione di cui all’articolo 37, paragrafo 3, di tale direttiva, sulle quali si fonda tale designazione, accesso il quale deve, da un lato, consentire al richiedente protezione internazionale interessato, originario di tale paese terzo, di difendere i suoi diritti nelle migliori condizioni possibili e di decidere, con piena cognizione di causa, se gli sia utile adire il giudice competente e, dall’altro, consentire a quest’ultimo di esercitare il proprio sindacato su una decisione concernente la domanda di protezione internazionale;
il giudice nazionale investito di un ricorso avverso una decisione, relativa a una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale di esame applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti da paesi terzi designati come paesi di origine sicuri, può, qualora verifichi, anche solo in via incidentale, se tale designazione rispetti le condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I a detta direttiva, tener conto delle informazioni da esso stesso raccolte a condizione, da un lato, di accertarsi dell’affidabilità di tali informazioni e, dall’altro, di garantire alle parti in causa il rispetto del principio del contraddittorio.
I precedenti rilevanti: Ministerstvo vnitra e A.
La Corte ha fatto ampio riferimento a due sentenze precedenti che hanno inciso profondamente sull’interpretazione del concetto di Paese di origine sicuro.
La prima è la sentenza C-406/22, Ministerstvo vnitra (2024), nella quale si è affermato che la designazione di POS è ammissibile solo se riferita all’intero territorio dello Stato terzo, escludendo così designazioni parziali o riservate, ad esempio, ad alcune zone o a determinate categorie di persone. Una designazione selettiva, infatti, comprometterebbe la coerenza e l’affidabilità del sistema.
La seconda è la sentenza C-404/17, A (2018), nella quale la Corte ha chiarito che il regime accelerato previsto per i richiedenti provenienti da POS è legittimo solo se il quadro normativo nazionale è pienamente conforme agli obblighi procedurali e sostanziali della direttiva. In mancanza di tali garanzie, l’accelerazione risulta incompatibile con il diritto all’asilo e alla protezione sussidiaria.
Reazioni istituzionali: la nota del Governo italiano e il fraintendimento del ragionamento della Corte
In seguito alla pronuncia, il Governo italiano ha diffuso una nota ufficiale di forte critica, ritenendo che la Corte di Giustizia dell’UE abbia invaso ambiti di competenza politica e legislativa nazionale, indebolendo gli strumenti per il contrasto all’immigrazione irregolare. Secondo tale posizione, la Corte avrebbe attribuito ai giudici nazionali un potere eccessivo, in grado di annullare decisioni politiche fondate su valutazioni parlamentari e istruttorie ministeriali.
Tuttavia, tale reazione appare viziata da una lettura parziale del contenuto e della ratio decidendi della sentenza. La Corte, infatti, non ha contestato il diritto degli Stati membri di designare Paesi sicuri, né la possibilità che tale designazione avvenga tramite legge. Ha invece precisato che tale potere deve essere esercitato nel rispetto del diritto dell’Unione, e dunque garantendo sempre un ricorso giurisdizionale effettivo, basato su informazioni trasparenti, accessibili e verificabili. L’affermazione per cui la decisione “consegna al giudice nazionale la politica migratoria” trascura che il giudice si limita a verificare la compatibilità della designazione con i diritti fondamentali della persona, come richiesto dagli stessi trattati europei.
La sentenza va quindi letta come un invito al legislatore nazionale a rafforzare il sistema delle garanzie, non come una sottrazione di sovranità (magari un invito ala legislatore ad imparare a scrivere le leggi). Il vero nodo è assicurare che la discrezionalità politica sia esercitata entro il perimetro dei vincoli giuridici derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea.
verso un bilanciamento tra efficienza e diritti fondamentali
La pronuncia della Corte costituisce un punto fermo nell’affermazione del principio secondo cui l’efficienza delle procedure amministrative non può mai pregiudicare il diritto fondamentale a un ricorso effettivo. Il fatto che il legislatore nazionale abbia scelto di operare una designazione diretta e legislativa dei POS non lo esonera dal rispetto delle garanzie di accessibilità, trasparenza e sindacabilità.
La Corte riafferma, con chiarezza, che non è la forma dell’atto normativo a determinare la compatibilità con il diritto dell’Unione, ma le garanzie procedurali e sostanziali offerte al richiedente e al giudice. La pubblicità delle fonti, l’accesso alle informazioni, la possibilità di contraddittorio e la disponibilità di una via giurisdizionale effettiva sono condizioni imprescindibili.
Pertanto, il governo italiano dovrà rivedere in modo significativo l’impianto normativo introdotto con il decreto-legge n. 158/2024, al fine di ristabilire una disciplina che rispetti pienamente le garanzie sancite dal diritto dell’Unione Europea e dalla giurisprudenza della Corte, salvaguardando così i diritti fondamentali dei richiedenti protezione internazionale e l’integrità dello Stato di diritto.
Breve osservazione
In questo caso, come in tantissimi altri, possiamo dire semplicemente che la legge è scritta male. Non è questione di sottrarre competenze ai giudici, ma di rispettare le garanzie minime che il diritto europeo richiede per legittimare una procedura che può limitare diritti fondamentali. I legislatori in genere non scrivono molto bene le Leggi e trattano il diritto come strumento di propaganda, invece che come uno strumento tecnico con cui risolvere i problemi. Si attaccano, poi, i giudici perché smantellano leggi suscettibili di critiche anche da una breve analisi di una scolaresca elementare. Il giudice non “sottrae potere” al governo: semplicemente applica il principio gerarchico delle fonti, ovvero verifica che la legge nazionale sia conforme al diritto dell’Unione e ai diritti individuali.
un’occasione per migliorare, non un attacco alla sovranità
La sentenza della Corte non rappresenta una sottrazione di sovranità nazionale, ma un richiamo alla necessità di coniugare le prerogative statali con il rispetto del diritto europeo e dei diritti fondamentali. Invece di essere letta come un ostacolo politico, dovrebbe essere considerata un’occasione per rafforzare la qualità (qualità questa sconosciuta) normativa, garantendo trasparenza, controllo giurisdizionale effettivo e coerenza con i valori dell’Unione e i valori nazionali. Solo così le politiche migratorie potranno essere allo stesso tempo efficaci, legittime e rispettose della dignità della persona. Non sterile tutela dei migranti, o inutile e deleterio allontanamento a prescindere, ma vero e concreto intervento volto a risolvere un problema che esiste.
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