Avvocato: Breve Storia di una Lunga Professione
A Cura dell’Avvocato Leandro Grasso
Avvocato. Una parola che pesa, che risuona nelle aule di giustizia, negli studi legali, e sempre più spesso… su Google. Se stai leggendo questo articolo, è probabile che tu stia cercando un avvocato, stia studiando per diventarlo, o magari ne stia cercando uno contro qualcun altro. Qualunque sia il motivo, benvenuto: qui parliamo proprio della figura dell’avvocato — storia, evoluzione, ruolo attuale e, sì, anche un pizzico di autocritica.
Dove tutto ebbe inizio: l’avvocato nell’antica Roma (e prima ancora)
Sorpresa: l’avvocato nasce ben prima della laurea, e ancor prima del diritto codificato come lo conosciamo oggi. La figura di chi difende, consiglia e intercede ha radici che affondano già nelle civiltà mesopotamiche e nell’antico Egitto, ma è a Roma che assume un’identità ben riconoscibile — e una toga degna di questo nome.
La prima fonte: il diritto romano e la Lex XII Tabularum
La prima fonte normativa del diritto romano è la Lex Duodecim Tabularum, ovvero le Dodici Tavole, redatte attorno al 450 a.C. Qui comincia il gioco serio. Si tratta della prima codificazione scritta del diritto pubblico e privato romano. E perché venne creata? Proprio perché i cittadini — soprattutto i plebei — si lamentavano del fatto che la legge fosse in mano solo ai patrizi, e che le norme venissero tramandate oralmente, come una password del Wi-Fi mai condivisa.
È in questo contesto che nasce, quasi per necessità sociale, la figura dell’oratore-difensore, antesignano dell’avvocato. All’inizio non era una professione retribuita (il ministerium forense era gratuito, per decoro). Ma come si sa, il prestigio non paga le bollette — così, col tempo, qualcosa comincia a muoversi.
Alcuni degli avvocati più influenti dell’antica Roma
Il primo nome su tutti? Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.). Avvocato, console, filosofo e maestro di retorica, Cicerone era in grado di distruggere un avversario con un solo periodo ipotetico, e lo faceva con eleganza. Le sue orazioni — come la Pro Caelio o la In Verrem — sono ancora oggi studiate nei corsi di retorica e diritto. Cicerone non era solo un avvocato: era una rockstar del Foro.
Accanto a lui, altre figure emblematiche:
- Quinto Mucio Scevola, giurista e pontefice massimo, che gettò le basi per la sistematizzazione del diritto civile;
- Giulio Paolo e Ulpiano, grandi giuristi imperiali, le cui opere finiranno nel Digesto di Giustiniano, vera Bibbia del diritto romano;
- Gaio, autore dell’omonimo Institutiones, manuale didattico che ha formato generazioni di giuristi.
Questi non erano “avvocati” in senso stretto, ma giuristi e oratori: l’avvocatura, all’epoca, era un’arte, non un mestiere. E proprio per questo, era riservata a pochi: nobili, patrizi, letterati, che univano cultura, influenza e abilità oratoria.
Ma perché nasce davvero la figura dell’avvocato?
La risposta è semplice, e incredibilmente moderna:
perché la legge è complicata, e i cittadini da soli non ce la fanno, o meglio serve una figura capace di razionalizzare senza sentimentalismi.
Già nell’antica Roma il diritto era una giungla di formule, riti, clausole e parole da interpretare. Serviva qualcuno che sapesse come muoversi, come rivolgersi al giudice, come “far girare” la causa. Non solo: l’avvocato era il ponte tra il popolo e la legge, tra la voce del cittadino e l’apparato giuridico. Un ruolo cruciale per la tenuta sociale, prima ancora che per la vittoria in aula.
In fondo, l’advocatus era colui che veniva “chiamato in aiuto” (ad-vocare). Ma spesso, molto più che in aiuto, veniva chiamato in battaglia. E da allora non ha più smesso.
Dalla toga romana all’aula universitaria: come il diritto si è perso… e poi ritrovato
Ma quando l’avvocatura diventa qualcosa di più “serio”? Quando smette di essere appannaggio di filosofi in toga e diventa una professione strutturata? Per capirlo, dobbiamo attraversare un periodo di silenzio, caos e… codici dimenticati in soffitta.
L’oblio del diritto romano sotto i regni barbarici
Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C., anche il diritto romano — quella raffinata architettura giuridica costruita in secoli — comincia a sgretolarsi. I nuovi padroni d’Europa, i regni romano-barbarici (Visigoti, Ostrogoti, Longobardi, Franchi), portano con sé sistemi giuridici tribali, orali, spesso basati su consuetudini, vendette e compensazioni in pecore (non esattamente il Codice Civile Zanardelli).
Il diritto romano non scompare del tutto — resta nella prassi ecclesiastica e in qualche documento conservato nei monasteri — ma viene eclissato da un pragmatismo giuridico rozzo, dove l’avvocato, semplicemente, non serve. Non c’è una figura di intermediazione giuridica, perché non c’è più una legge universale da interpretare.
La grande riscoperta: il Digesto di Giustiniano e la scuola di Bologna
E poi, colpo di scena. Siamo nell’XI secolo. In una biblioteca di Pavia o forse a Ravenna (gli storici litigano ancora), riemerge il “Corpus Iuris Civilis” di Giustiniano, l’imperatore romano d’Oriente che, nel VI secolo, aveva codificato tutto il diritto romano in un’unica opera monumentale. Tra le sue parti, il Digesto è la vera miniera d’oro per giuristi: una collezione di sentenze, dottrine, principi. Una Bibbia laica per l’uomo di legge.
E chi prende in mano questi testi con la passione di un archeologo e la fame di un intellettuale?
I glossatori della Scuola di Bologna.
Nel 1088 nasce l’Alma Mater Studiorum, considerata la prima università del mondo occidentale. E cosa si studia lì? Diritto, naturalmente. Ma non il diritto dei re e dei vescovi, no: si studia diritto romano, con un entusiasmo che fa sembrare Netflix un passatempo da pigri.
I glossatori — Irnerio in testa — leggono, commentano, “glossano” i testi antichi, cercando di adattarli al mondo medievale. Inizia così la trasformazione del diritto in scienza, e la formazione del giurista moderno.
La rinascita dell’avvocatura
Con la sistematizzazione del diritto torna anche la necessità di figure che lo interpretino, lo spieghino, lo difendano in aula. Insomma, torna l’avvocato. Ma stavolta con una novità: non basta più l’arte oratoria. Serve preparazione tecnica, formazione universitaria, competenza specifica.
Nascono le prime forme di albo professionale (anche se rudimentali), si stabiliscono norme deontologiche (più o meno rispettate), e prende corpo l’idea dell’avvocatura come mestiere riconosciuto, non più passatempo per intellettuali in toga.
La toga, però, resta. Perché la forma, si sa, è sostanza.
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Dall’assolutismo ai codici: quando l’avvocato diventa moderno
Se il Medioevo ha riscoperto il diritto, è l’età moderna a forgiare l’avvocatura come la intendiamo oggi. E non fu un percorso semplice: tra re assoluti, ghigliottine, rivoluzioni e codificazioni, la figura dell’avvocato ha rischiato più volte l’estinzione… o la santificazione.
L’avvocato sotto i Re: servitore del trono o voce del popolo?
Durante l’Ancien Régime, il diritto è affare dei re — e quindi, inevitabilmente, uno strumento di potere. Gli avvocati? Tollerati, a volte persino ascoltati, ma pur sempre subordinati alla volontà sovrana. Non esistono ancora codici unitari: ogni regno ha il suo mosaico di norme locali, consuetudini, editti.
Eppure, è proprio in questo clima che emergono le prime voci fuori dal coro. Pensatori e giuristi che cominciano a ragionare sul diritto non come imposizione, ma come espressione della razionalità, della giustizia, dell’umanità.
Beccaria e il diritto come garanzia, non punizione
Nel 1764, un giovane milanese di nome Cesare Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene, e il mondo del diritto non sarà più lo stesso. L’opera è una rivoluzione copernicana: niente più torture, pene arbitrarie, esecuzioni pubbliche come intrattenimento.
Beccaria dà voce a un’idea di giustizia che oggi ci pare ovvia, ma che all’epoca era quasi blasfema: il diritto serve a proteggere il cittadino, non a opprimerlo.
E in questo nuovo paradigma, l’avvocato assume un ruolo nuovo: non più solo tecnico della parola, ma garante delle libertà. Una figura essenziale per impedire che la legge diventi sopraffazione.
La rivoluzione francese e l’avvocato illuminista
La Rivoluzione francese accende i cuori e affila le ghigliottine. Tra le sue vittime illustri c’è anche l’antico ordinamento giuridico, che viene spazzato via in nome dell’uguaglianza e della razionalità. È qui che l’avvocato assume una nuova fisionomia: difensore dei diritti dell’uomo, artefice della giustizia moderna.
Nascono concetti fondamentali: la legalità dei reati e delle pene, la separazione dei poteri, il processo pubblico, la presunzione d’innocenza. Tutti principi che l’avvocato, oggi, brandisce come spada e scudo.
Il Codice Napoleonico: l’avvocatura diventa sistema
E poi arriva lui: Napoleone Bonaparte. Conquista mezza Europa a suon di battaglie, ma il suo colpo più duraturo non si gioca sul campo: si chiama Code civil, ed è il primo grande codice moderno. Chiaro, sistematico, applicabile ovunque: una rivoluzione silenziosa ma potentissima.
Il modello napoleonico si diffonde in tutta Europa e ispira anche la codificazione italiana dell’800, fino al Codice Zanardelli (1889) e al Codice Civile del 1865. Il diritto non è più una somma disordinata di norme e consuetudini: è un sistema coerente, e l’avvocato diventa l’interprete professionale di quel sistema.
Francesco Carrara e il giurista come moralista laico
Nel cuore dell’800 italiano c’è un altro gigante del pensiero giuridico: Francesco Carrara, padre del diritto penale moderno. Le sue Programma di diritto criminale sono il manifesto di un avvocato che non si limita a conoscere le leggi: le interroga, le critica, le umanizza.
Carrara è il teorico del diritto penale come extrema ratio, l’ultima difesa della società e della libertà. In un’epoca in cui le prigioni si riempiono facilmente, lui ricorda che la vera giustizia non sta nella punizione, ma nella proporzione, nella razionalità, nella pietà.
La Costituzione parla chiaro
E sì, l’avvocato è una figura riconosciuta e tutelata dalla Costituzione Italiana. L’articolo 24 afferma che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”, mentre l’articolo 111 garantisce il giusto processo, in cui l’avvocato ha un ruolo centrale e insostituibile.
In parole povere: senza avvocati, non c’è giustizia. Ma senza clienti, non ci sono avvocati (e questo, purtroppo, lo sanno bene anche loro).
L’avvocato, oggi, è una figura in continua evoluzione. Deve districarsi tra leggi in perenne mutamento, udienze fiume e parcelle sempre più “ottimizzate”. Ma resta — e resterà — una figura cardine della democrazia. Non è solo il professionista della legge: è il garante dei diritti, il portavoce del cittadino, il paladino della parola ben spesa.
E in un mondo dove tutto si semplifica con una app, l’avvocato resta il professionista che, per fortuna, non puoi sostituire con un clic.
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