Oltre la colpa, dentro l’uomo: la pena naturale tra diritto, giustizia e umanità
Di fronte a certi eventi tragici, la legge penale appare come un bisturi troppo affilato: taglia dove dovrebbe toccare. Ma può davvero il diritto rinunciare a punire quando la realtà stessa ha già inferto la pena più dura?
Sempre più spesso le persone invocano pene esemplari, giustizia, condanne e molto altro senza realmente comprendere il diritto penale; che è una scienza. Tuttavia ci sono casi in cui il pensiero più umanistico tende a pensare che il Diritto Penale dovrebbe fermarsi ed arretrare di fronte alla cd. Pena naturale. Casi rari, eccezionali, ma comunque esistenti.
In questi casi in cui esiste una fondata, concreta e dimostrata situazione di “pena naturale” si dovrebbe evitare di indagare/ istaurare un processo per accertare i fatti, come ipotizzano i sostenitori più radicali di questa teoria, oppure, come sarebbe più logico per le regole processuali penalistiche, prevedere una causa di esimente sostanziale o di una circostanza attenuante soggettiva?
Insomma farla comunque passare attraverso un processo di accertamento giudiziale, che tuttavia eviti una reale condanna penale.
Non si tratta solo di una teoria, infatti molte pronunce in Italia hanno affrontato il tema arrivando addirittura alla Corte Costituzionale. la Corte si è pronunciata su una questione che ha inciso profondamente nella scienza e nel dibattito penalistico contemporaneo. Il caso riguardava un uomo imputato per omicidio colposo: uno zio che, durante dei lavori in un cantiere, aveva inavvertitamente causato la morte del nipote, presente sul luogo. La tragedia, consumatasi nell’ambito familiare, ha sollevato un interrogativo cruciale:
è compatibile con i principi costituzionali imporre una pena statale, laddove l’autore del reato abbia già subito, per effetto diretto della sua condotta, una sofferenza insostenibile?
A sollevare la questione di legittimità costituzionale sull’art. 529 del codice di procedura penale è stato il Tribunale di Firenze. Il giudice rimettente dubitava che fosse conforme ai principi di umanità e proporzione punire un soggetto che ha già sofferto una “pena naturale” devastante. La Corte costituzionale, ha dichiarato non fondata la questione per la sua ampiezza e genericità, ma ha riconosciuto l’importanza e la complessità del tema, da valutare, però, sotto una luce molto differente.
https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2024:48
Che cos’è la pena naturale
Con “pena naturale” si intende quella sofferenza interiore e personale, spesso irreparabile, che l’autore di un reato vive come conseguenza diretta del suo atto. Non è una punizione inflitta dallo Stato, ma una tormenta che si abbatte sull’individuo, una forma di giustizia che non può essere misurata né dai codici né dalle sbarre di una prigione.
Immagina, per esempio, un genitore che causa la morte del proprio figlio in un incidente tragico: la consapevolezza di aver provocato quella perdita, il rimorso che divora la sua anima, l’ineluttabile pesantezza che lo schiaccia a ogni respiro. Non esistono pene che possano realmente pareggiare l’immensità del dolore che una simile situazione porta con sé. La pena naturale in questi casi non ha bisogno di una sentenza, perché è già in atto: la vita stessa punisce più duramente di qualunque carcere o condanna. La memoria di quell’errore, il peso dell’ineluttabile, accompagna l’individuo per sempre, segnando la sua esistenza più profondamente di qualsiasi pena che un tribunale possa infliggere.
Spesso, il dolore per la perdita di una persona cara, o il peso del rimorso per un errore fatale, può risultare superiore a qualsiasi tipo di pena detentiva. La “pena naturale” non è solo una sofferenza psichica, ma una vera e propria pena morale che invade l’animo umano. Essa risiede nell’inadeguatezza che un individuo avverte nei confronti di un dolore immenso che non potrà mai essere riparato. Ed è proprio in questi casi che la giustizia sembra dover andare oltre la mera applicazione di sanzioni penali: per l’individuo, il vero castigo è già dentro di lui.
Non si tratta di un concetto nuovo. Il concetto che il dolore stesso possa fungere da pena è riscontrabile già nel diritto romano, dove si affermava che la sofferenza può essere considerata una forma di punizione; il dolore stesso è pena. Nella dottrina penalistica moderna, il concetto è stato recuperato soprattutto nel contesto tedesco, dove viene in certi casi riconosciuto esplicitamente come fattore che incide sulla punibilità o sull’entità della sanzione.
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L’esempio tedesco
In Germania il giudice, nel determinare la pena, deve tener conto anche delle conseguenze che il fatto ha avuto sull’imputato. La giurisprudenza tedesca ammette esplicitamente che una sofferenza significativa, come quella derivante dalla morte accidentale di un familiare causata dall’imputato, possa incidere sulla decisione sanzionatoria, fino a rendere la pena superflua.
Si tratta di una logica elastica e giurisprudenziale, fondata sul principio di individualizzazione della pena e sulla sua funzione rieducativa. Non si prevede un’esenzione automatica, ma si riconosce che, in casi eccezionali (eccezionali), la giustizia deve farsi carico anche del dolore dell’autore, quando esso è già di per sé una punizione.
La riflessione italiana
In Italia, l’ordinamento penale non contiene una disciplina espressa della “pena naturale”. Tuttavia, l’art. 133 c.p., che regola i criteri di determinazione della pena, permette al giudice di considerare la gravità del danno e la condotta post delictum. Anche l’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) e la sospensione condizionale della pena rappresentano meccanismi di attenuazione, seppur fondati su presupposti diversi.
Con la sentenza Sentenza 48/2024, la Corte costituzionale ha respinto la questione di legittimità, ma ha colto l’occasione per sottolineare che l’ordinamento non è insensibile alla sofferenza personale dell’imputato. Secondo la Corte, la pena naturale può (e deve) essere valutata in sede di determinazione della pena, e può giustificare l’applicazione di sanzioni più miti o l’accesso a istituti di clemenza.
La Consulta ha però tracciato un limite chiaro:
non è possibile introdurre, per via interpretativa, una causa generale di non punibilità fondata sulla pena naturale. Spetta al legislatore valutare se, e come, riconoscerne una dignità normativa autonoma.
Ma soprattutto ancor più importante dal punto di vista tecnico la corte afferma che:
non vi sono ragioni costituzionali in base alle quali la pena naturale da omicidio colposo del prossimo congiunto debba integrare una causa di non procedibilità, anziché, in thesi, un’esimente di carattere sostanziale, ovvero ancora una circostanza attenuante soggettiva
I rischi della “umanizzazione”
Il riconoscimento della pena naturale come causa di esclusione della punibilità presenta indubbi rischi. Il primo è quello di una soggettivizzazione estrema del diritto penale: se ogni dolore potesse giustificare l’esonero dalla pena, si rischierebbe di trasformare la giustizia in empatia arbitraria. Cosa non possibile, né auspicabile.
Inoltre, vi è il pericolo di svuotare di contenuto il delitto colposo. La responsabilità penale richiede rigore, e il dolore soggettivo non può automaticamente cancellare la necessità di un accertamento pubblico, imparziale, e sanzionatorio.
Carcere Preventivo, L’Attualità di Carrara
I benefici: un diritto più vicino alla vita
Eppure, ci sono casi nei quali la punizione appare quasi crudele. Genitori che perdono i figli per una distrazione, medici che causano la morte di pazienti per un errore umano, persone che vedono la loro vita distrutta da una colpa non dolosa: in questi casi, il processo e la pena rischiano di infliggere una sofferenza ulteriore, ingiusta e sproporzionata.
Riconoscere, in via legislativa e rigorosamente tipizzata, la possibilità di una esimente, o una circostanza attenuante soggettiva in presenza di una pena naturale particolarmente intensa, significherebbe restituire al diritto la capacità di fermarsi davanti alla tragedia.
Una clausola di salvaguardia
Il futuro potrebbe essere quello di una clausola di chiusura. Una norma residuale che consenta al giudice, in casi eccezionali e motivati, concreti e provati, di riconoscere la non punibilità quando la vita ha già imposto la sua condanna.
Ovviamente, però, per dare vera rilevanza a questa forma di tutela non si può non passare da una sentenza di condanna.
Una simile apertura, tuttavia, richiede equilibrio, trasparenza, e garanzie procedurali. Come ha ricordato la Corte costituzionale, “la pena non può mai diventare esercizio di crudeltà”. Il diritto non può sempre guarire, ma può scegliere di non ferire ulteriormente.
In un tempo in cui il diritto cerca nuove vie tra la rigidità della norma e la fragilità dell’umano, la pena naturale potrebbe rappresentare un ponte tra la legge e la vita.
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