Il Ragionevole Dubbio e le Parole Tradite: Indagato, Imputato e l’Etica dell’Informazione nell’Era dei Social
Avv. Leandro Grasso Chi perde il senso delle parole, ha già perso il senso della giustizia.
Nell’epoca dei social network, dove l’informazione corre alla velocità di uno scroll e la verità si piega sotto il peso di un hashtag, la giustizia penale rischia di essere sommersa da un oceano di superficialità. Chiunque, armato di uno smartphone e una connessione, si erge a giudice, giuria e boia. E nel farlo, calpesta con incoscienza alcune delle fondamenta più sacre del diritto. Due parole, in particolare, vengono abusate con una leggerezza criminale: “indagato” e “imputato”. Unite all’incapacità diffusa di comprendere il principio del “ragionevole dubbio”, esse formano il tridente letale che affonda il dibattito pubblico nel fango del pregiudizio.
Dai commenti e dalle reazioni che vediamo sui social in genere ci diciamo: Siamo veramente peggiorati
Ogni generazione si autocritica e pensa che sia la peggiore. L’odio sui social, l’incapacità di comprendere la realtà e i testi sembrano oggi essere estremi e irrimediabili. “Le persone sono peggiorate dopo il Covid” ci diciamo lamentandoci.
Per quanto scomodo, però, dobbiamo comprendere che non è il popolo ad essere peggiorato è l’eco che aumenta l’effetto. Ed è proprio l’effetto che si dovrebbe comprendere e sul quale bisognerebbe fare molta prevenzione ed educazione.
Dai tempi di Cesare e Catilina, la folla ha sempre avuto una propensione a giudicare con l’istinto più che con la ragione. Cicerone già si preoccupava della retorica che poteva incendiare il Foro e distorcere il giudizio. Tacito parlava della “voluntas populi” come mutevole, manipolabile, feroce.
L’idea della plebe famelica di sangue e condanne non è invenzione moderna.
Ciò che è cambiato oggi, però, è l’amplificatore. I social media sono il nuovo Colosseo. Dove una volta ci volevano oratori, oggi bastano influencer; che non sono proprio la stessa cosa. Dove servivano pergamene, oggi basta un reel. Il meccanismo psicologico di base – la paura, la rabbia, il bisogno di nemici, la vendetta, il desiderio di sangue – è immutato, ma ora corre su fibra ottica.
Il risultato è una folla globale, iperconnessa, che giudica più in fretta e più superficialmente, ma non per questo con maggiore consapevolezza.
Non è che il popolo sia diventato più ignorante.
È che oggi l’ignoranza ha più strumenti per esprimersi, e più pubblico.
L’accesso alle informazioni è aumentato, ma non la capacità di discernere. E la cultura giuridica – come anche quella scientifica – richiede
lentezza, studio, dubbio.
Tutto ciò che l’algoritmo disincentiva.
Il Giusto e l’Ingiusto: Una Questione di Prospettive Giuridiche
Il lessico della giustizia: quando le parole contano
Nel diritto penale italiano, ogni parola ha un peso specifico e un significato ben preciso, frutto di secoli di evoluzione giurisprudenziale e dottrinale. “Indagato” e “imputato” non sono sinonimi, anche se il giornalismo da prima pagina sembra ignorarlo con una costanza quasi ideologica.
Diffamazione a Mezzo Stampa: Il contesto è tutto
Indagato: l’alba del procedimento penale
Un soggetto è “indagato” quando il pubblico ministero, titolare dell’azione penale, iscrive il suo nome nel registro delle notizie di reato, il cosiddetto “registro degli indagati”. Questa iscrizione è un atto dovuto ogniqualvolta emergano elementi, anche solo indiziari, che facciano supporre il coinvolgimento della persona in un fatto penalmente rilevante. Non è un atto d’accusa, non è una condanna anticipata. È l’avvio di una verifica, un’accensione dei riflettori investigativi.
L’art. 61 c.p.p. stabilisce che la persona assume la qualifica di indagato non appena il pubblico ministero compie un atto garantito nei suoi confronti. A quel punto, entrano in gioco una serie di diritti fondamentali: il diritto alla difesa, l’assistenza di un avvocato, la possibilità di accedere agli atti e di partecipare agli interrogatori.
Ma l’indagato è, ancora e sempre, una persona presunta innocente. L’iscrizione nel registro non è pubblica e non dovrebbe mai diventare materia di titoloni da prima pagina. Quando questo accade, è già in corso una condanna mediatica, spesso irreversibile.
Imputato: l’inizio del processo
Si diventa “imputati” solo con l’esercizio formale dell’azione penale, cioè quando il pubblico ministero, al termine delle indagini preliminari, ritiene di avere raccolto elementi sufficienti per chiedere il rinvio a giudizio. In quel momento, la persona viene formalmente accusata davanti a un giudice.
Questo passaggio è regolato dall’art. 60 c.p.p.: la qualifica di imputato si acquisisce con la formulazione dell’imputazione. Anche qui, è bene ricordare: l’imputazione non è una sentenza. È l’inizio del contraddittorio processuale, il momento in cui le prove dell’accusa vengono testate dal filtro della difesa e del giudice terzo.
In altre parole, l’imputato è colui che è chiamato a rispondere di un’accusa, ma la sua colpevolezza deve essere ancora dimostrata “oltre ogni ragionevole dubbio”.
Il principio del ragionevole dubbio: garanzia o fastidio?
Chiunque abbia seguito anche solo un episodio di una serie crime americana ha sentito pronunciare queste parole:
“Beyond a Reasonable Doubt”.
In Italia, il principio è stato recepito in modo più formale con la riforma dell’art. 533 c.p.p. del 2006, che stabilisce che il giudice può pronunciare sentenza di condanna solo se l’imputato è ritenuto colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio.
Questo principio non è un lusso per i colpevoli, ma una garanzia per tutti. Impone al giudice un onere probatorio elevatissimo, proprio perché la condanna penale comporta le conseguenze più gravi che l’ordinamento giuridico può infliggere a un cittadino: la limitazione della libertà personale, la stigmatizzazione sociale, la perdita dei diritti civili.
Il ragionevole dubbio è il cardine su cui ruota lo Stato di diritto. Ma nel cortocircuito mediatico odierno, questo principio viene spesso deriso, confuso con il “garantismo ad oltranza” o con una presunta debolezza del sistema.
La gogna digitale e la morte della presunzione d’innocenza
In teoria, la Costituzione è chiarissima: l’art. 27, comma 2, afferma che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Ma la rete non conosce l’art. 27. Nei social media, la presunzione è di colpevolezza, anzi di colpevolezza immediata e virale. Bastano tre righe di un titolo clickbait, un tweet astioso, una foto presa fuori contesto: la reputazione è già stata giustiziata.
Questo clima di caccia alle streghe digitale ha effetti devastanti. L’indagato è già colpevole. L’imputato è solo in attesa di conferma. L’assolto è stato salvato da cavilli. Nessuno è mai veramente innocente agli occhi dell’opinione pubblica social.
Giornalismo e responsabilità: l’etica smarrita
Una parte della responsabilità è certamente da attribuire al giornalismo. Titoli costruiti ad arte per massimizzare il click-through rate sacrificano la precisione in nome dell’emozione. “Indagato per corruzione il sindaco di…” è un titolo che vende. Ma la parola “indagato” viene lanciata come una condanna anticipata, senza contesto, senza approfondimento.
Una volta che un individuo finisce al centro di un titolo suggestivo, spesso accompagnato da una foto sgranata e un frame televisivo selezionato con cura manichea, la macchina mediatica si mette in moto, e sarà molto difficile – se non impossibile – fermarla. L’opinione pubblica si forma in pochi secondi, e nella gran parte dei casi si cristallizza: “se ne parlano tutti, allora sarà vero”. Anche se il procedimento verrà archiviato, anche se l’assoluzione sarà piena, anche se il fatto non sussiste, la macchia rimane.
Il diritto all’oblio è un miraggio in un deserto di server permanenti.
In questo scenario, la diffamazione online assume contorni inquietanti. Un post, un commento, un articolo carico di sospetti lanciato senza verifica e senza filtro può diventare virale, e quindi permanente. In rete, la velocità batte la verità. E le norme sulla diffamazione a mezzo stampa e a mezzo web, pur esistenti, sono troppo spesso inefficaci nel prevenire il danno o nel ripararlo tempestivamente. La lentezza della giustizia si scontra con l’istantaneità della gogna.
Il giornalismo giudiziario, che dovrebbe essere una delle punte di diamante dell’informazione, è spesso ridotto a una caccia alla notizia spettacolare. Il risultato è una sistematica disinformazione, una pericolosa torsione del linguaggio che tradisce il suo stesso mandato: informare per formare opinione pubblica, non per deformarla.
Una parte della responsabilità è certamente da attribuire al giornalismo. Titoli costruiti ad arte per massimizzare il click-through rate sacrificano la precisione in nome dell’emozione. “Indagato per corruzione il sindaco di…” è un titolo che vende. Ma la parola “indagato” viene lanciata come una condanna anticipata, senza contesto, senza approfondimento.
Il giornalismo giudiziario, che dovrebbe essere una delle punte di diamante dell’informazione, è spesso ridotto a una caccia alla notizia spettacolare. Il risultato è una sistematica disinformazione, una pericolosa torsione del linguaggio che tradisce il suo stesso mandato: informare per formare opinione pubblica, non per deformarla.
Diffamazione: Esempi e Casi Pratici
Il ruolo della cultura giuridica: educare è resistere
Di fronte a questo scenario, il ruolo degli operatori del diritto, delle scuole, delle università e delle riviste giuridiche diventa centrale. Non si tratta solo di fare divulgazione, ma di difendere un lessico e una struttura logica che sono la spina dorsale dello Stato di diritto.
Ogni volta che spieghiamo la differenza tra “indagato” e “imputato” compiamo un atto di resistenza. Ogni volta che ribadiamo che il ragionevole dubbio è una conquista civile e non un fastidio procedurale, manteniamo viva la fiamma della giustizia.
Oltre i 280 caratteri
La giustizia non è un tweet. Non si scrive con i meme, non si determina con i sondaggi online. Ha bisogno di tempo, di prove, di confronto dialettico. E ha bisogno di parole esatte, che siano maneggiate con la stessa cura che si riserva agli strumenti chirurgici.
Indagato non significa colpevole. Imputato non è sinonimo di condannato. Il ragionevole dubbio è la nostra barriera contro l’arbitrio. Difendere queste parole, in un’epoca in cui tutto è semplificato, è un dovere civico. Perché chi perde il senso delle parole, ha già perso il senso della giustizia.