Delitti e Titoli: cronache giudiziarie del lettore medio e del suo cugino più svelto, il lettore frettoloso
Come il diritto di cronaca si è trovato faccia a faccia con l’algoritmo, e la Cassazione ha cominciato a interrogarsi non solo sulle parole sbagliate, ma anche su chi le legge (e su come le legge). Commento alla Sentenza nr. 13200, del 18/05/2025
Testo in calce
Ogni mattina, un lettore medio si sveglia e apre un social. Scrolla velocemente, non ha tempo, si annoia ogni giorno di più, poi una notizia. Non sa se leggerà tutto l’articolo o se si fermerà al titolo, ma sappiamo una cosa: il suo giudizio sulla reputazione altrui inizierà entro le prime cinque 5 parole e qui ci sarà lo scontro tra la diffamazione e l’esigenza del Clickbait.
Il lettore non ha tempo di leggere tutto, ma ha tempo di commentare: “In galera a vita!” “Pena di morte”
Ogni mattina, da qualche parte in Italia, un giornalista (un articolista o un giorn-articolista) sa che deve trovare un titolo che “buchi” il feed. Tra i due, in mezzo, si agitano le parole e i diritti, troppo complessi per essere spiegati o capiti. Così, puntualmente, arriva un giudice armato solo di codice e buon senso, che tenta di capire se quella riga sopra la foto sia solo un ammiccamento redazionale o una diffamazione in piena regola.
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Benvenuti nell’epoca in cui il diritto penale incontra il clickbait.
La Suprema Corte ci ha messo un po’, ma alla fine si è fatta una domanda che avremmo voluto sentire prima: Chi è il lettore?
Per anni, giurisprudenza e dottrina hanno discusso di soglie di verità, di continenza espressiva, di rilevanza sociale della notizia. Ma mentre i tribunali valutavano la cronaca con il bisturi del diritto, le testate digitali brandivano l’accetta dell’engagement. E così, mentre il giudice cercava l’elemento soggettivo del reato, il titolo gridava:
“Indagato per truffa, domani il processo”.
Peccato che l’indagine fosse ancora in fase di 415-bis, e il processo, in realtà, non fosse nemmeno stato chiesto.
Ed ancora: “La prova definitiva sulla colpevolezza di tizio”
Peccato che oltre alla PRESUNTA prova definitiva c’erano altri cento elementi che ne decretavano l’innocenza.
È qui che il lettore medio è diventato protagonista. Le Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 17405/2025) hanno stabilito un principio tanto ovvio quanto rivoluzionario:
Attribuire a un soggetto la posizione di imputato quando è solo indagato, magari usando la scorciatoia di un titolo ambiguo o un catenaccio urlato, può costituire diffamazione.
Ma non basta: la Corte aggiunge che bisogna considerare il contesto della pubblicazione. Tradotto: è diverso scrivere un’imprecisione in un articolo di due pagine su carta, rispetto a insinuarla in un titolo online, pensato per essere condiviso, travisato e digerito in meno tempo di quanto serva a leggere questa frase.
In una precedente pronuncia (Cass. 12903/2020), i giudici avevano già affermato che l’offesa si misura dal contesto. Ma oggi il contesto non è solo la pagina intera: è l’anteprima su Google, è il tweet, è la push notification.
E il lettore, quello vero, non legge tutto: scorre.
Ecco allora che la Cassazione individua due categorie generali di lettori il lettore medio, già studiato e analizzato, ed una nuova: il lettore frettoloso.
Il lettore non è stupido, è solo stanco, non ha tempo, probabilmente soffre di ADHD. Legge dal telefono, tra un semaforo e un caffè, e se un titolo dice che Tizio è a processo per stupro, difficilmente andrà a verificare che si trattava di tentato abuso e che, comunque, era solo l’avviso di conclusione indagini.
“PENA DI MORTE!”
Commenta senza leggere.
La Cassazione, con cautela da entomologo, prova a inseguire il lettore nel suo habitat naturale: la home page. E lo fa riconoscendo che la percezione sociale dello status di imputato è diversa da quella dell’indagato, (il lettore medio nemmeno conosce la distinzione delle due parole) e che un errore del genere, soprattutto se nel titolo, non è una svista innocente, ma può avere conseguenze reputazionali devastanti. Il giornalista lo sa, ma lo sa anche il giudice.
È in questo clima che l’algoritmo e la deontologia si fronteggiano in una sorta di processo parallelo, dove il primo urla: “clicca!”, e la seconda sussurra: “verifica”. Il diritto, per una volta, sembra voler ascoltare il sussurro.
Già la corte intervenne sul giornalismo esprimento il cd. “decalogo del giornalista” nel lontano 1984. Divenuto diritto vivente e assumendo la veste del cd. Giornalismo responsabile. Un lontano miraggio oscurato dalla sete tossica di click. Secondo quel vetusto principio, fondato nell’art. 10 della CEDU, la tutela della libertà di espressioni è per il giornalista condizionata da un esercizio in buona fede, dall’accuratezza e dall’affidabilità delle informazioni veicolare al pubblico.
Come fanno a conciliarsi la necessità di sopravvivenza da click con la buona fede?
La necessità di una notizia assimilabile come una tic tac con l’accuratezza?
La velocità nel lanciare una notizia con l’affidabilità dell’informazione?
Oggi o si seguono quei valori o si seguono i guadagni. Pochi centesimi a click in cambio della propria dignità. Eppure i giornali continuano a perdere, forse il mercato desidera la qualità? La verità, che ha tantissimi aspetti e sfaccettature, si interfaccia con il diritto di cronaca in un’accezione di compromesso, mediando tra le esigenze di flessibilità e quelle del rigore professionale che dovrebbe tutelare i diritti delle persone coinvolte.
La giurisprudenza chiede sempre lo scrupolo e la diligenza nell’esame, nella verifica e nel controllo della consistenza della relativa fonte informativa.
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Questi principi assumono più rigore nella cronaca. Infatti l’attività giurisdizionale trova proprio nel popolo il suo referente: La giustizia è amministrata in nome del popolo. Art. 101 Cost.
Ma è proprio nella cronaca penale che sorge un’ulteriore principio costituzionale l’antica, dimenticata: Presunzione di non colpevolezza ex art. 27 Cost. Un concetto che spesso viene ritenuto dal popolo, per il quale la giustizia è amministrata, da radical chic. Ma anche un concetto che si frappone fra l’ingordigia della stampa on line e la responsabilità penale.
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Addirittura la giurisprudenza parla di aggiornare le notizie date così da adeguare la notizia al mutato cambiamento. Tuttavia l’accuratezza e la verità cedono il passo al diritto di cronaca e la giustizia chiude gli occhi davanti ad inesattezze e imprecisioni, ma solo se queste non mutano la realtà dei fatti.
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Cosa accade però quando bisogna scrivere un titolo da click bait?
In questi casi la giurisprudenza, che è viva perché si forma sui casi reali, dice che bisogna dare peso e valutare anche i destinatari dell’informazione. Così ha creato queste due figure di riferimento.
- Il lettore frettoloso, sprovvisto di tendenza all’approfondimento. Ritenuto statisticamente prevalente, è colui che si sofferma sulle parti che graficamente sono in grado di catalizzare maggiormente la sua attenzione. Come una falena con la luce. Come ad esempio il titolo che rechi un’affermazione chiara, compiuta, univoca, che di per sé sarebbe sufficiente ad esaurire il contenuto della notizia senza richiedere un approfondimento nella lettura del testo.
- Il lettore medio, più attento, non dotato di arguzia, ma con quel minimo di energie muscolari nel pollice da cliccare sul link e leggere le prime due frasi.
Tali considerazioni assumono rilievo a fortiori alla luce del rinnovato contesto in cui la divulgazione avviene. Certo, ci voleva la Cassazione, con la sua proverbiale agilità comunicativa, per accorgersi che il lettore del 2025 non sfoglia il Corriere con la lente d’ingrandimento ma scorre Instagram mentre aspetta il treno. Ed eccoli, i supremi ermellini, a dirci che ormai il concetto di “stampa” non è più solo carta e rotativa, ma anche homepage, push notification e titoli sparati in corpo 72. Eureka.
Così, in un impeto di modernità sobria, la Corte è costretta ad informare che oggi bisogna distinguere tra chi legge il pezzo e chi legge del pezzo. Perché il “prodotto editoriale” ormai vive in quel limbo ipnotico tra il pollice e lo schermo, dove il lettore si imbatte in decine di contenuti selezionati da un algoritmo che conosce il suo inconscio meglio della madre.
Ma non finisce qui. La Corte ci propone ben due ritratti antropologici, stupendi, eleganti e precisi del pubblico: da un lato il “lettore-utente-social-network”, un essere volatile, distratto, che si nutre di titoli come snack mentali.
Dall’altro, il “lettore medio”, un signore educato che, pur senza particolare sforzo o arguzia (Cass. pen. n. 10967/2019; Cass. pen. n. 503/2023; Cass. pen. n. 11669/2023; Cass. pen. 13017/2024). (sottolineiamo: senza particolare sforzo o arguzia!), riesce comunque, più o meno, ad arrivare fino in fondo all’articolo. Una sorta di pensionato digitale che legge tutto, ma solo se il font non è troppo piccolo.
Alla fine, con la delicatezza di chi maneggia una tazzina di porcellana giapponese in un rodeo, la Suprema Corte conclude che la diffamazione si valuta caso per caso: se il contenuto è digitale, si guarda il titolo; se è cartaceo, si guarda tutto. Ma attenzione! La distanza tra i due approcci, ci rassicurano, è “più apparente che reale”.
Va, infatti, considerato che, diversamente dalla dimensione dell’informazione cartacea, nella dimensione dell’informazione digitale le dinamiche dell’informazione sono trasformate e la presentazione del dato informativo si ispira alla ricerca di essenzialità e speditezza, nell’obiettivo di abbinare sintesi e profondità comunicativa.
E in questo nuovo mondo dovrebbero trovare spazio i principi cardine del giornalismo: la verità, l’accuratezza e l’affidabilità. Così, mentre le testate riscrivono titoli al rialzo per conquistare attenzione, la giurisprudenza fa un passo indietro per guardare l’intero quadro: non solo le parole scritte, ma come vengono lette.
Un piccolo paradosso, in fondo: la verità giudiziaria che si inchina davanti alla psicologia della percezione. Ma anche un segnale dei tempi: è finita l’era dell’informazione a senso unico. Oggi, in tribunale, insieme al querelante e al giornalista, c’è anche il lettore. E la sua analisi sociologica.
Anche se, a ben vedere, non ha mai avuto il tempo di leggere davvero.
Tuttavia il giorn-articolista lo sa e lo sa anche il Giudice.
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