Corte costituzionale, sentenza n. 96/2025 CPR

Libertà sotto chiave: la Corte costituzionale e i CPR tra silenzi normativi e tutela dei diritti

Ancora una volta la Corte svolge una meravigliosa riflessione, nonché una panoramica generale su leggi maldestre di legislatori poco attenti e governati solo dall’emergenza; la Corte si spinge fino al limite, poi si ferma sulla soglia del proprio potere e lancia un’insegnamento ad astanti distratti; la razionalità e la legalità.

La sentenza della Corte costituzionale, 2 luglio 2025, sentenza n. 96/2025 è una sentenza in sostanza di rigetto dei ricorsi, non modifica nulla, ma in compenso lascia delle motivazioni che insegnano moltissimo.

Sentenza in calce

Dentro i confini dell’attesa

C’è un luogo in Italia in cui la libertà non è sottratta con una condanna, ma sospesa in un limbo giuridico. Si chiama CPR — Centro di Permanenza per i Rimpatri — e lì non si sconta una pena, ma si attende un ritorno. Un ritorno non sempre possibile, non sempre imminente, e — come ci ricorda la Corte costituzionale con la sentenza n. 96 del 2 luglio 2025 — non sempre regolato da una legge.

Il Giudice di pace di Roma, chiamato a convalidare il trattenimento di cittadini stranieri, solleva una questione cruciale: è possibile restringere la libertà personale in assenza di una disciplina primaria sui “modi” del trattenimento?


Le questioni: quando la legge tace

Nel cuore del giudizio costituzionale si annida un dubbio antico e sempre attuale: che cosa resta della libertà personale quando la legge tace, e il potere amministrativo decide?

La norma censurata — l’art. 14, comma 2, del D.Lgs. n. 286/1998 (Testo unico sull’immigrazione), come novellata dal D.L. n. 130/2020 e poi convertita nella L. n. 173/2020 — prevede il trattenimento amministrativo dello straniero in attesa di rimpatrio. Ma fa di più, o meglio: fa di meno. Non disciplina nulla sui “modi” concreti del trattenimento, rinviando l’intera materia a una fonte secondaria — l’art. 21, comma 8, del d.P.R. n. 394/1999 — e ai provvedimenti prefettizi adottati localmente.

La norma tace sul chi eserciti i poteri di vigilanza e su quali limiti debba rispettare; tace sui diritti concreti del trattenuto, sulle garanzie procedurali, sui poteri del giudice. In altre parole: tace sulla Costituzione.


Il Giudice di pace di Roma ha allora interpellato la Corte costituzionale, chiedendo di verificare se una simile disciplina — o, meglio, un simile vuoto — sia compatibile con:

  • l’art. 13, secondo comma, Cost., che sottopone ogni forma di limitazione della libertà personale a riserva assoluta di legge;
  • l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 5 §1 CEDU, che impone che la privazione della libertà sia «legale», cioè fondata su una legge chiara, accessibile e prevedibile;
  • e con un’intera costellazione di norme costituzionali:
    • art. 2 (diritti inviolabili dell’uomo),
    • art. 3 (uguaglianza e divieto di discriminazione),
    • art. 10, secondo comma (adeguamento dell’ordinamento italiano al diritto internazionale),
    • artt. 24, 25, 32 e 111 (diritto di difesa, legalità, salute, giusto processo).

La questione ha una doppia anima: da un lato tocca il profilo formale della legalità della detenzione amministrativa, dall’altro quello materiale della parità di trattamento tra lo straniero trattenuto e il detenuto ordinario. Perché il primo deve subire una restrizione in un luogo chiuso, senza la protezione dell’ordinamento penitenziario, senza il controllo del giudice di sorveglianza, e senza una legge che gli riconosca garanzie minime?

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In questa cornice, la domanda si fa incalzante e scomoda: può un regolamento — o peggio, un atto amministrativo (!) adottato caso per caso dal prefetto — limitare in concreto la libertà personale, senza che una legge formale abbia fissato criteri, contenuti e limiti della misura?

Beh, se la risposta fosse si l’intera impalcatura dell’illuminismo che fonda l’odierno stato di diritto, nonché la nostra costituzione crollerebbe a pezzi.

Secondo la giurisprudenza della Corte EDU (Khlaifia c. Italia, 2016; Mansouri, 2025), no: la “legalità” richiesta dall’art. 5 CEDU implica prevedibilità, trasparenza e controllabilità giurisdizionale. Una legge che rinvia ad atti amministrativi discrezionali non è legge in senso convenzionale.

Nemmeno il diritto dell’Unione offre scappatoie: l’art. 16 della Direttiva 2008/115/CE e l’art. 12 della recente Direttiva 2024/1346/UE impongono agli Stati membri di disciplinare in modo puntuale le condizioni del trattenimento e di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali, con attenzione alle persone vulnerabili, al contatto con l’esterno, all’assistenza sanitaria, e all’informazione sui propri diritti in una lingua comprensibile.

E tuttavia, nella disciplina italiana — come osserva la Corte — il trattenimento resta appeso a una piramide rovesciata, con il peso di un diritto fondamentale sostenuto da un vertice instabile: atti secondari e decisioni amministrative locali. Locali. Locali.

Il Diritto Sospeso

È in questo vuoto che si radica la questione di legittimità: non nel trattenimento in sé, ma nella sua disciplina insufficiente, nella mancanza di una cornice legale chiara, uniforme e garantista, che delimiti la discrezionalità amministrativa e assicuri al trattenuto ciò che ogni persona ha diritto di sapere: perché è trattenuto, da chi, per quanto, e con quali tutele.

Se si limita la libertà personale, anche per la migliore delle ragione, lo si deve fare sempre in una cornice costituzionale.

Quindi, la domanda è chiara: può un regolamento, o peggio, un atto amministrativo, limitare in concreto la libertà di una persona, senza che una legge abbia fissato criteri e limiti precisi?


Il diritto (troppo) flessibile dei CPR

La Corte non ha dubbi: il trattenimento nei CPR incide sulla libertà personale. È, di fatto, una forma di “detenzione amministrativa”, che si protrae anche per 18 mesi (art. 14, comma 5, T.U. Immigrazione), ed è attuata senza una cornice normativa primaria sufficiente.

Ed infatti l’art. 21 comma 8 del DPR nr. 394 del 1999 richiamato dall’art. 14 stabilisce: “L’art. 21, comma 8, del d.P.R. n. 394 del 1999, richiamato dal censurato art. 14, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, stabilisce che «le disposizioni occorrenti per la regolare convivenza all’interno del centro, […] sono adottate dal prefetto, sentito il questore, in attuazione delle disposizioni recate nel decreto di costituzione del centro e delle direttive impartite dal Ministro dell’interno per assicurare la rispondenza delle modalità di trattenimento alle finalità di cui all’articolo 14, comma 2, del testo unico».

Direttive del Ministero. Che nel novero delle fonti del diritto (e cioè di ciò che viene qualificato come legge o atto avente forza di legge) equivalgono ad un nulla. Sono e restano atti di organizzazione interna.

Il Caso della Nave Diciotti

Tuttavia, il trattenimento, la limitazione della libertà personale, il confinamento di una persona, sin dall’alba dello stato di diritto implica che una misura di trattenimento può essere disposta o prorogata solo nel rispetto delle norme generali e astratte che ne fissano le condizioni e le modalità (La Legge) (in tal senso, Corte di giustizia UE, grande sezione, sentenza 8 novembre 2022, cause riunite C-704/20 e C-39/21, Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid e X, paragrafo 75).

Ancora, già in precedenza la Corte EDU, grande camera, sentenza 15 dicembre 2016, Khlaifia e altri contro Italia, in relazione al trattenimento presso centri di primo soccorso e hotspot , ha a suo tempo ravvisato la violazione degli artt. 5, paragrafi 1, 2 e 4, e 13 CEDU in combinato disposto con l’art. 3 della medesima Convenzione, in relazione ai profili di legalità della detenzione amministrativa e, per ciò che qui rileva, per l’assenza nell’ordinamento italiano di un ricorso giurisdizionale attivabile dai migranti avverso le condizioni di accoglienza.

Cita la propria giurisprudenza — dalla sentenza n. 105/2001 alla più recente n. 22/2022 — per ribadire che ogni forma di assoggettamento fisico all’altrui potere ricade sotto la tutela dell’art. 13 Cost., che richiede riserva assoluta di legge.

La giurisprudenza di questa Corte ha affermato più volte che la misura del trattenimento dello straniero presso centri di permanenza e assistenza comporta una situazione di «assoggettamento fisico all’altrui potere». Tale condizione «è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale» (sentenze n. 212 del 2023, n. 127 del 2022 e n. 105 del 2001). Il trattenimento dello straniero, dunque, in quanto misura incidente sulla libertà personale, non può essere adottato al di fuori delle garanzie dell’art. 13 Cost., essendo da ricondurre alle «altre restrizioni della libertà personale», di cui pure si fa menzione nel secondo comma di tale articolo.

Eppure, la Corte non accoglie le questioni. Le dichiara inammissibili, e qui sta il nucleo più problematico della sentenza.


Un vizio reale, ma senza rimedio

La Corte riconosce un “vulnus” costituzionale: la legge non disciplina né i “modi” del trattenimento, né individua l’autorità giudiziaria competente al controllo e alla tutela dei diritti. La normativa rinvia a regolamenti e direttive ministeriali, demandando di fatto l’intera materia alla discrezionalità dell’amministrazione.

Tuttavia, la Corte non può colmare questo vuoto con una pronuncia demolitoria, perché mancherebbe comunque una disciplina residuale in grado di reggere il sistema. Il rischio sarebbe quello di paralizzare il sistema dei CPR, lasciandolo senza copertura giuridica.

Il problema esiste, ma il rimedio non può essere fornito dal giudice costituzionale. Spetta al legislatore colmare la lacuna, come già affermato nelle sentenze sulle REMS (n. 22/2022) e nella giurisprudenza sulla detenzione amministrativa.


La tutela (residuale) dei diritti

La Corte individua, tuttavia, alcuni strumenti già presenti nell’ordinamento:

  • l’art. 2043 c.c., per la tutela risarcitoria;
  • l’art. 700 c.p.c., per una tutela cautelare urgente, già ritenuta adeguata dalla CEDU (Khlaifia c. Italia, 2016; Mansouri, 2025).

Tuttavia, si tratta di tutele sussidiarie, ex post, e non specificamente pensate per la detenzione amministrativa. Non sono sufficienti, né sostitutive di una disciplina organica sui diritti delle persone trattenute.


Oltre il recinto giuridico: un’urgenza politica

Il trattenimento nei CPR, ricordiamolo, non è una pena, ma un mezzo di controllo migratorio. Proprio per questo, la sua legittimità costituzionale richiede ancora più rigore, non meno.

La Corte si ferma dinanzi ai limiti del proprio potere, ma lancia un messaggio chiaro al legislatore: non si può più rinviare. Una disciplina generale, unitaria, garantista è un dovere costituzionale, e non solo un’opzione di policy.


la libertà si difende anche nel silenzio

La sentenza n. 96/2025 è, in fondo, una decisione di impotenza consapevole. La Corte dice ciò che non può fare, ma indica ciò che deve essere fatto. Il trattenimento amministrativo, se lasciato alla discrezionalità delle autorità locali, non è compatibile con la Costituzione, con la CEDU, né con la Carta di Nizza.

Ora spetta (spetterebbe, in teoria, in un mondo perfetto) al legislatore trovare le parole giuste per dire giustizia. Tuttavia siamo sicuri che il legislatore resterà immobile e la giurisprudenza dovrà in qualche modo trascinare di nuovo la società verso l’evoluzione.


Leggi la Sentenza

Note a margine:

  • Corte cost., sent. n. 22/2022 (REMS)
  • Corte cost., sent. n. 105/2001, 212/2023, 127/2022
  • CGUE, sent. 8 novembre 2022, C-704/20 e C-39/21
  • Corte EDU, Khlaifia c. Italia, 15 dicembre 2016
  • Direttiva UE 2008/115/CE e Direttiva UE 2024/1346